(...) con una punta dinvidia: «La vostra amministrazione, oltre a essere più efficiente, dà la sensazione di prendersi cura dei cittadini, di accudirli». Usò, anzi, unespressione che mi piacque molto e mi inorgoglì: «Palazzo Marino coccola i milanesi». Forse è di queste «coccole» che Doninelli denuncia la mancanza: delle attenzioni e delle cautele che lamministrazione usava per alleviare i fastidi che la crescita, il cambiamento e linnovazione, destino ineludibile di Milano, provocano sui cittadini. Quelle attenzioni che, ad esempio, facevano svolgere i lavori stradali quasi solo di notte, che non facevano uscire i mezzi dellAmsa nelle ore di punta per prelevare i rifiuti, che regolamentavano più rigorosamente laccesso in città dei mezzi pesanti e il carico e scarico delle merci, che ti facevano incontrare, magari con un certo disappunto, un ghisa quasi ad ogni incrocio e perfino di sera.
Ma da quei tempi molte cose sono cambiate: lo strapotere e larroganza sindacale a cui negli anni 70 e 80 si è concesso molto hanno stravolto gli orari e i modi dei servizi alla città, tenendo conto più delle esigenze dei lavoratori che di quelle dei cittadini; hanno riempito gli uffici della polizia municipale di impiegati in uniforme che hanno abbandonato gli incroci (che fine hanno fatto i tanto decantati vigili di quartiere? Chi li ha visti?).
Intanto è cambiata la popolazione milanese: è cambiata socialmente e culturalmente, con la scomparsa delle fabbriche e la metamorfosi del tessuto produttivo della città. Cambiamenti che hanno comportato anche una mutazione etica e - ahinoi! - civile, con la perdita, speriamo solo parziale, di quel senso civico ambrosiano che faceva di Milano la «città meno italiana» dItalia.
Su tutto questo si è riversato infine lo tsunami epocale dellimmigrazione, a cui Milano avrebbe resistito molto meglio se non fossero stati danneggiati in precedenza quegli storici bastioni civili ed etici. Insomma, il danno viene da lontano, come daltra parte Doninelli stesso ha ben spiegato nel suo bel libro Il crollo delle aspettative.
Rassegnarsi, dunque? Lamentarsi e piangersi addosso? Niente affatto. Dobbiamo prendere atto dello stato delle cose e impegnarci nel restauro di quei bastioni, magari ricostruendoli più solidi. Milano sta affrontando la più grandiosa fase di trasformazioni (in primo luogo urbanistiche ma non solo) dalla fine della Seconda guerra mondiale, per riconquistare a pieno titolo il ruolo di metropoli internazionale. Questo è il vero obiettivo dellExpo 2015, su cui il sindaco Moratti ha puntato tutto. Anchio spesso mi chiedo se non sia un errore giocare su un solo tavolo, ma pare che così facciano i grandi giocatori vincenti.
Intanto, però, per ripristinare almeno in parte quella cultura dellaccudimento del cittadino, lamministrazione deve anche accettare leventualità di qualche conflitto: per strappare i vigili dagli uffici e riportarli agli incroci (la storica battaglia dellex sindaco Gabriele Albertini ha avuto alla distanza effetti limitati); per avere le strade libere, senza auto in seconda fila e i marciapiedi sgombri; per limitare i fastidi dei lavori stradali; per convincere i comuni dellhinterland che Milano non può tollerare veti esterni sulla politica della mobilità; per spiegare ai commercianti, i quali ottusamente si oppongono a ogni pedonalizzazione, che invece, come dimostrano i precedenti, essi ne traggono sempre vantaggio; per ottenere dagli ambulanti la possibilità di qualche spostamento per ripartire il disagio; per avere più taxi a disposizione, mezzi pubblici più frequenti e orari della metropolitana più... «metropolitani».
Insomma, per far funzionare meglio la città forse sarà necessario accettare il rischio, quasi la certezza di qualche scontro, anche duro. Prepararsi ad una fase di «thatcherismo ambrosiano» - e la Moratti mi sembra il tipo giusto - in base al principio che al centro dellazione dei poteri pubblici deve esserci sempre lindividuo-cittadino e non le singole corporazioni, i poteri più o meno forti, le clientele e le lobby.
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