DIBATTITO Il 25 aprile? Divide ma non sostituitelo

Un errore la proposta di festeggiare il 18 aprile, giorno della vittoria della Dc: un altro anniversario settario

DIBATTITO Il 25 aprile? 
Divide ma non sostituitelo

Il deputato del Pdl Fabio Garagnani ha pro­posto che il 25 aprile del 1945, giorno della Libe­razione, cessi d’essere una festività nazionale,e che in sua vece lo divenga il 18 aprile 1948: quan­do il trionfo elettorale della Dc e dei suoi alleati cancellò ogni timore d’una ipoteca del Fronte popolare socialcomunista sul potere. L’onore­vole Garagnani ricorda, per motivare la sua ini­ziativa, che molti partigiani di sinistra non lotta­rono per la conquista della libertà, ma per sosti­tuire al dominio nazifascista un dominio di stampo sovietico. Le reazioni dell’opposizione erano pre­vedibili, nella loro violenza e nel­la loro asprezza. S’è parlato d’un «gesto politico vigliacco e provo­catorio » e s’è ribadito che il 25 aprile non si tocca. Non condivido la voluttà con cui molti politici si gingillano nel­la selva italica delle ricorrenze, delle celebrazioni, delle comme­morazioni, delle perorazioni ap­passionate. Aggiungo che i rilie­vi del Garagnani sulla settarietà d’una componente di rilievo del­­la Resistenza, e sulle troppe ban­diere rosse e falci e martello che l’hanno accompagnata e l’ac­compagnano, non sono per nien­te infondati. Infatti da molti - me compreso - è stato detto e scrit­to, con tutto il rispetto per i cadu­ti e per i combattenti, che il 25 aprile è subito diventato ed è ri­masto una data di divisione na­zionale, non di unità. L’appro­p­riazione di sinistra d’ogni anni­versario, con espulsione anche fisica di quanti rappresentasse­ro governi non di sinistra ma le­gittimamente eletti, ha trasfor­mato una festa nazionale in un megacomizio di parte. Non su questo verte il mio net­to dissenso dalla proposta Gara­gnani, ma su alcune convinzioni ideali o pratiche. La prima è que­sta: sono d’accordo nel ritenere ingiusta la damnatio inflitta alla memoria di militanti repubbli­chini che erano in buona fede. Ma chi vuole riabilitare una mi­noranza alleata di Hitler deve pri­ma rendere l’onore delle armi a un’altra minoranza che era allea­ta delle democrazie benché aves­se al suo interno i seguaci di Sta­lin. La seconda convinzione è che appartiene alla logica evita­re, in un Paese rissoso come il no­­stro, le celebrazioni che alimen­tano i contrasti, e privilegiare in­vece le celebrazioni pacificatri­ci. Tra queste colloco il 2 giugno, anche se non molto sentito, per­ché della querelle tra repubblica­ni e monarchici non c’è più trac­cia nelle nuove generazioni. In­vece il 18 aprile 1948, che segnò l’apogeo della stagione degaspe­riana, sarebbe comunque una data molto divisiva, anche nella prospettiva attuale.C’è chi tutto­ra insiste - e non si tratta di grup­puscoli ma di settori importanti della società - sulla tesi che il Fronte popolare rappresentasse un’intellighenzia illuminata, e che la Dc rappresentasse le be­ghine e i baciapile. Sono scioc­chezze, le beghine e i baciapile avevano comunque visto me­glio d’una falange di «Maestri». Ma chi ha nostalgia della sinistra si porrebbe, di fronte a un 18 apri­le eretto a simbolo della Patria, come nemico. La terza convinzione è che la proposta Garagnani- pur se accol­ta a quanto leggo da Palazzo Chigi come raccomandazione- si estin­guerà cammin facendo, e impin­guerà soltanto l’immane magaz­zino parlamentare delle idee inu­tili, dei costosi perditempo di Montecitorio. La quarta convin­zione è che l’Italia abbia bisogno, soprattutto in momenti d’emer­genza e di crisi come gli attuali, d’un Parlamento che si occupi dell’oggi, degli immani problemi che sono sul tappeto, e che rifug­ga dai dibattiti accesi e superflui sull’archeologia politica della Re­pubblica.

Credo che il 25 aprile lo si potrebbe e magari lo si dovreb­be toccare, soprattutto per l’imba­razzante post- 25 aprile. Ma se dal toccarlo deve derivare un diluvio di talk-show accalorati su un evento remoto, meglio non farne niente. Quanto al 18 aprile, prefe­risco tenermelo come buon ricor­do, senza che i retori lo inquinino.

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