Dido ed Enea teatro danza ben eseguito

Elsa Airoldi

da Ferrara

Un prologo che più fascinoso e barocco non si può. Una enorme vasca trasparente nella quale fluttuano tra i veli due, tre, quattro, tutti i corpi che la regista e coreografa Sasha Waltz ha a disposizione. L'acquario umano seduce. Entrano nel sangue i vibrati, gli effetti chiaroscurali e gli affetti dell'eccellente Akademie für Alte Musik Berlin. O gli improvvisi, compatti interventi corali dell'altrettanto eccellente Vocalconsort di Berlino. Quello che non troviamo è il colore dolente (...infandum, regina, iubes renovare dolorem..., Eneide, II,3) del lavoro ispirato al IV libro dell'Eneide. La punta secca dell'invenzione stilisticamente indefinita che canta all'italiana, mescola le carte come il masque inglese, danza al pari del ballet-à-entrées francese. Non c'è più il personaggio scolpito di Didone nemmeno quando la regina intona il suo lamento When I am laid in earth. Né le streghe sghignazzanti che ricordano tanto quelle, a venire, del Macbeth verdiano. Manca anche quel poco di Enea previsto, eroe debole per l'assenza di approfondimento psicologico. Ed è assente all'appello, o troppo discontinuo, il Leitmotiv del basso continuo. Insomma non c'è più Purcell. A dire il vero Purcell, tutto intero, non c'è mai stato. L'opera, un'ora in tutto in genere abbinata a un atto unico di altra mano, è giunta spuria, senza Prologo e senza Finale (se c'era). Inoltre, scritta per il collegio femminile diretto da Josias Priest a Chelsea, e da quelle aristocratiche fanciulle rappresentata (1689), così com'era non s'è rivista praticamente mai più. E quando s'è vista ha cercato con maggior convinzione di restare un'opera. Al massimo un masque. Qui, come a giorni capiterà anche alla Scala in considerazione dalla quantità di sezioni danzate di raccordo, la regia è affidata a un coreografo. Appunto alla Waltz, neo-espressionismo tedesco. Ma alla fine Sasha si prende tutto. E trasforma quella che è un'opera, regolarmente inserita nel cartellone operistico del Comunale di Ferrara, in teatro danza. Vista in tale ottica va tutto bene. Anzi si nota una mano molto più leggera di altre volte. Nonostante la generosità di nudi non palestrati, le mutande di cotone, gli spogliarelli grotteschi, l'omosex insistito. Ma non mancano fantasia, rigore geometrico, immagini che restano. Ma la propotenza visiva finisce col penalizzare la musica.

Indebolisce i simboli (il temporale di passioni, il senso di morte del canto di Didone, la malinconia). Fa perdere il filo della storia e copre le voci dei solisti. Che sono la discreta Aurore Ugolin-Didone, il tenore Reuben Willcox-Enea fuori stile, Deborah York-ottima Belinda.

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