Difendere le nostre imprese? No, grazie

Negli Usa si afferma il mercato, in Francia il "campanilismo" economico, da noi le privatizzazioni irrisolte e deboli. Ma la miglior difesa dagli assalti stranieri è dotarsi di un sistema efficiente. Senza alzare steccati

Difendere le nostre imprese? No, grazie

L’acquisto da parte del gigante francese Lactalis del 29 per cento del capitale sociale di Parmalat, una delle poche multinazionali del nostro Paese, ha fatto riemergere la questione della tutela dei «campioni nazionali». E il governo ha varato un decreto legge (per lo spostamento dei termini di convocazione delle assemblee delle società per azioni) che sembra possa servire per dare modo a una eventuale cordata italiana di preparare una contromossa per il controllo di Parmalat. Nel testo del decreto non si fa menzione della difesa dell’interesse nazionale, ma il tema potrebbe essere sollevato con emendamenti in parlamento. Dunque è interessante fare una analisi di carattere teorico e storico delle posizioni che, in questo campo, si sono formate in Europa e negli altri Paesi industriali. Al riguardo, ci sono due posizioni: quella dei mercantilisti, sviluppata soprattutto nei secoli dal Seicento alla prima parte dell’Ottocento; e quella della scuola dell’economia di mercato.
Quest’ultima, a sua volta, si bipartisce nella teoria dell’economia di laissez-faire, che Tremonti chiama anche mercatismo e Ropke denomina «capitalismo storico»; e quella dell’economia di mercato di concorrenza, con regole del gioco che ne garantiscono il funzionamento. La differenza fra queste due concezioni, per quanto ci interessa, sta nella questione dei grandi gruppi, sul rischio che possano diventare dei monopoli. Per la teoria mercantilista, che in Francia ebbe particolare corso con la politica di Gian Battista Colbert super ministro di Luigi XIV, il Re sole, nella seconda metà del XVII, l’interesse nazionale comporta che si debba favorire la crescita e l’espansione internazionale delle imprese nazionali e ostacolare le straniere con varie misure, come le esclusive per svolgere determinate attività, i dazi protettivi, le sovvenzioni. La Rivoluzione francese ha generato, in Francia, il libero scambio, ma non ha distrutto la tradizione colbertista dell’interesse nazionale. E l’avvento di Napoleone I e Napoleone III ha comportato nuove ondate di nazionalismo, che si sono tradotte nello sviluppo di grandi imprese pubbliche.
Il colbertismo in Francia non è caduto neanche quando si è attuato il Mercato comune europeo, nato da un compromesso fra gli Stati che volevano il libero scambio e il libero movimento dei capitali e la Francia stessa che esigeva la protezione dell’agricoltura e un speciale regime dirigista per il carbone, l’acciaio (questo gradito anche alla Germania) e l’energia nucleare. Ed è resistito anche dopo l’attuazione del «grande mercato europeo» approvato a metà degli anni Ottanta, a seguito del vertice di Milano, presieduto da Craxi e dopo l’Unione economica e monetaria che esige il libero movimento dei capitali in tutta l’Euro-zona.
La protezione dell’interesse nazionale da parte di Parigi si è realizzata in tre modi. Innanzitutto la Francia, a differenza dell’Italia, ha mantenuto pressoché tutte le sue imprese pubbliche e le ha anzi potenziate: non solo le tradizionali Ferrovie e Poste, ma anche Edf nel settore dell’energia, e Telecom France. E Air France, Airbus, Renault e altro ancora, tramite quote di minoranza che danno un controllo di fatto. Inoltre la Caisse de Depot et Consignation, una banca statale analoga alla nostra Cassa Depositi e Prestiti, possiede azioni di società industriali varie, come Danone e Air Corsica e intreccia le sue attività con le banche private. Ad essa si affianca Credit Agricole. Ufficialmente una enorme banca di credito cooperativo, in realtà una gigantesca banca di affari. Ed ecco infine la legge francese per la difesa delle imprese di interesse nazionale, che vuole impedire le offerte pubbliche di acquisto nei riguardi delle società francesi di vari settori, considerati di pubblico interesse compreso quello agro alimentare. Una eccezione che l’Europa tollera perché la Francia è «più eguale degli altri».
Negli Stati Uniti invece si è diffusa la teoria del libero scambio, senza protezioni per le grandi imprese. Successivamente si sono avute le leggi antitrust, che hanno spinto le multinazionali a ramificarsi soprattutto all’estero dove, grazie alla legislazione tributaria federale, hanno anche vantaggi fiscali. Per reciprocità e per dottrina economica «mercatista» l’investimento estero negli Usa è libero e benvenuto.
Esiste però una legge che consente di bloccare gli acquisti di imprese statunitensi da parte di imprese estere se in gioco c’è la sicurezza nazionale, intesa nel senso politico-militare del termine. Questa è una nozione che, seguendo la teoria mercatista, si potrebbe applicare in Italia all’Eni o all’Enel, dato il loro ruolo strategico nella nostra autonomia energetica, non certo al settore alimentare. Anche seguendo la variante di una economia di mercato di concorrenza, con regole del gioco, che io propugno sulla base della lezione di Einaudi e di Ropke, si può accettare questa eccezione. E anche aggiungere il principio per cui non si può ammettere un potere dominante di mercato delle grandi imprese.
La tesi per cui l’Italia potrebbe dotarsi, in generale, di una legislazione in materia simile a quella francese, non è accettabile. Potrebbe essere ammissibile solo con la limitazione della reciprocità, allo scopo di indurre i francesi ad abolire la loro. Ciò in analogia con quello che si fa nel caso delle sovvenzioni con i dazi antidumping, per scoraggiare il protezionismo e dar luogo a reciproco libero scambio. Ma una legge di tipo francese è efficace solo contro l’Opa, non contro le quote di controllo inferiori al 30%, efficaci, quando il resto della proprietà è frazionato, come in Parmalat. La vera soluzione sta nella finanza. In Italia la separazione legislativa fra banca e industria, derivata dalla crisi bancaria degli anni Trenta, è durata sino a qualche anno fa. E le nostre grandi banche non sono ancora abituate a sorreggere le imprese industriali, come in Francia o in Germania.


Lo sviluppo di grandi imprese italiane è necessario per colmare il vuoto che si è creato con le privatizzazioni attuate all’epoca della fine della Prima repubblica spezzettando le grandi imprese pubbliche, vedasi la perversa politica di coriandolizzare del gruppo Ferruzzi-Montedison, con i patti sindacali nazionali rigidi. Ma dovrebbe esserci un impegno del sistema bancario, su basi economiche solide, con contratti di lavoro secondo il modello Marchionne.

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