Il direttore del carcere: «È come un lupo solitario non parla con nessuno»

Le condizioni di salute del capomafia non sono preoccupanti: «Ma sembra spaesato». Intanto gli investigatori cercano la terza talpa

nostro inviato a Palermo

Il «lupo solitario», l'ennesimo soprannome con cui viene chiamato Binnu Provenzano, ha iniziato la sua vita da detenuto al carcere di Terni. Rinchiuso nella sezione speciale del 41 bis, raccontano che non parla con nessuno, neanche con gli agenti di custodia. È stato sottoposto alle visite mediche e, pare, che le sue condizioni di salute siano buone. «Relativamente all'età e al lungo tempo passato nel casolare», racconta il direttore Francesco Dell'Aira, che lo definisce appunto «un lupo solitario»: «Sta provando a capire dove si trova, e sembra deciso a non parlare con nessuno, ha il bagno in cella, ma non può né leggere, né guardare la televisione», spiega. E probabilmente quello che gli mancherà maggiormente è la sua attività «postale». Attività che darà invece un bel lavoro agli inquirenti, che dovranno decifrare tutti quei numeretti e scoprire a chi corrispondono. L'inchiesta quindi è entrata nel vivo, e per i pm incaricati sarà una Pasqua di lavoro. Ma al di là delle indagini che scaturiscono dalla cattura del boss, va avanti a pieno ritmo un'altra inchiesta condotta dallo Sco e dal reparto operativo dei carabinieri, coordinata dall'aiuto pm Giuseppe Pignatone. L'inchiesta segue i filoni aperti dalle altre inchieste, cosiddette «del prosciugamento» attorno al boss, e sembra portare dritto ad un gruppo di personaggi, una ventina, che il procuratore Grasso definisce «dell'area grigia», grazie ai quali Provenzano si è potuto consentire una così lunga latitanza. Persone che contano sul territorio, capaci di garantire protezione. Quest'ultima sarebbe una sorta di inchiesta madre, da cui scaturiscono quella portata avanti dai Ros che indagano su Villabate e Ficarazzi e quella della polizia, che aveva il compito di indagare sui familiari e su Bagheria. Ed è stato seguendo questo filone che «il boccino è finito lì», che Provenzano è stato afferrato.
Il boss si trovava nel casolare di Montagna dei Cavalli, pochi chilometri da Corleone, ormai da più di un anno. Era stato «spinto» a rintanarsi nelle sue zone e abbandonare Bagheria (dove pare abbia vissuto per lungo tempo) dopo che era esplosa l'inchiesta «grande mandamento», che con una maxi retata il 25 gennaio 2005 aveva mandato in galera una settantina di personaggi, molti insospettabili, altri boss più noti, piccoli imprenditori, politici di terzo livello, tutti del suo giro. «Abbiamo tolto altra acqua a Provenzano» aveva annunziato il procuratore Grasso. Con un certo rammarico, visto che anche allora gli inquirenti si erano sentiti sicuri che l'obiettivo era vicino. Ma pare che il boss dei boss fosse stato avvertito in tempo e che, ancora una volta, fosse riuscito a far perdere le sue tracce. Insomma più che «spifferi» o «chiacchiere», c'era stata una vera e propria soffiata. Eppure le talpe per antonomasia, Pippo Ciuro (assistente alla Procura di Palermo), e Giorgio Riolo, maresciallo dei Ros, erano ormai in carcere. In quel momento gli investigatori hanno avuto la certezza che qualcuno ha preso il loro posto, o dentro il Palazzo di Giustizia, o tra le forze dell'ordine. Ed è per questo che hanno deciso di frammentare le inchieste e procedere in ordine sparso.

Il risultato è stato efficace, se alla fine il covo di Provenzano è stato raggiunto. E già ieri sono state firmate dai pm Marzia Sabella e Michele Prestipino le prime deleghe di indagine su alcuni «colletti bianchi» individuati dalla lettura dei primi «pizzini» sequestrati nel casolare di Corleone.

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