«Dirigere alla Scala è amore» Marin racconta la sua Manon

Il maestro romeno: «Con l’orchestra? Una luna di miele»

Elsa Airoldi

Finalmente un sorriso in questa valle di lacrime. È quello di Ion Marin. Caschetto morbido e scuro, occhi acuti e arguti, comunicativa, simpatia, look elegante, portamento sportivo. Ion, 45 anni, magnanimi lombi con DNA individuato a Toledo 5 secoli fa e quindi avvistato un po’ ovunque, Venezia («alla quale abbiamo dato un doge») e Austria incluse, è nato a Bucarest e si definisce austriaco. Dalle nostre parti se ne era parlato soprattutto per il Così fan tutte dello Strehler. Ora il nome torna perché il direttore sale stasera per la prima volta sul podio della Scala, con la Manon di Massenet. Per ogni domanda mille risposte in un italiano ricercato e colto. Come mai Strehler? «Eravamo amici, ci siamo conosciuti a Salisburgo».
I suoi padri spirituali?
«Karajan, che mi ha indicato il suono dell’orchestra. Claudio Abbado. Karlos Keiber, amico di mio padre, che mi ha insegnato a lottare contro i compromessi».
E la Scala?
«Il mio approdo alla Scala, dopo tanti anni di Vienna, Met, Bastille, Berlino mi pare fisiologico. Certo la Scala è “il teatro”, ma non per questo un punto d’arrivo. Dirigere alla Scala è un atto d’amore. Del resto noi direttori costituiamo una specie di club. Se sei un direttore di primo livello di questo club ha un curriculum quasi identico a quello degli altri. Che include la Scala».
Dunque nessuna emozione?
«La consuetudine con le partiture di Abbado, Serafin, Toscanini, insomma con tutte la annotazioni che mi sono passate tra le mani, m’ha sempre dato la sensazione d’avere già diretto alla Scala. L’orchestra? Una vera luna di miele. Sto pensando a una tournée».

Le tensioni del Piermarini?
«La Scala è uno dei teatri più rilassanti del mondo perché chi ci lavora agisce con passione e serietà».
Parliamo di Manon. La sua è una scelta francese?
«Sono allergico alla specializzazioni. Manon è molto meno francese di quanto non sembri. Non dobbiamo dimenticare né i vari generi d’opera, né che l’opera francese nasce dal ceppo dei tre compositori italiani: Rossini, Donizetti e Verdi. Cui si aggiunge l’apporto dei tedeschi. Manon ha la melodicità di Donizetti, la drammaticità di Verdi e le tensioni del tardo Rossini. Massenet si esegue per problemi di struttura. Personalmente reinserisco i recitati, ma su una base orchestrale. Li ritengo importanti perché in genere non si capiscono. Sono un po’ un mistero».
Tagli?
«No, l’integrale. Peccato che l’allestimento abbia tolto le danze. Frigerio e la Squarciapino sono magnifici. Tutte le volte che alla fine scende il tulle in controluce mi viene da pensare a Strehler».
Ramon Vargas previsto nel ruolo di Des Grieux è stato sostituito. Il discorso cade sui tenori.
«Ce ne sarebbero tanti, ma la moda del mordi e fuggi e del faccio tutto io li brucia».
Tra sinfonico e operistico?
«Ora sono più rivolto al sinfonico. I miei autori preferiti? Mozart e Mahler...».
Ma ha vinto un premio per la contemporanea.
«Sì, ma Schnittke è un caso a sé. Si dice un “post-moderno”? In questo periodo sto stendendo una cantata su temi tibetani che coinvolgerà anche il Dalai Lama».
Perché così poco in Italia?
«Mancano le orchestre, tre in tutto: Rai, Verdi e Santa Cecilia.

Contro le 117 tedesche, le tre della sola Londra, la 5 o 6 che contano negli Usa».
Anche il suo curriculum è assai simile agli altri della «prima classe» del club.
«È vero, ma io ho fondato l'unica filiazione cameristica dei Berliner, la Sinfonietta».

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