«Diritti umani negati Ma rinunciare agli affari è impossibile e dannoso»

«Libertà e rispetto dell’uomo per noi restano al primo posto. Ma con la Cina dobbiamo stare attenti a evitare ingerenze che non ci competono, altrimenti rischiamo di peggiorare le cose». Federico Vitali, presidente di Confindustria Marche, dal 1996 fa affari con la Cina. La sua impresa, la marchigiana Faam, è specializzata nel settore degli accumulatori e dei veicoli elettrici, ha uno stabilimento con 40 dipendenti nella provincia di Jiangsu, dove il figlio, Ermanno, vive e si occupa del settore commerciale. I suoi prodotti saranno presenti ai Giochi olimpici di Pechino e serviranno per il trasporto degli atleti all’interno del villaggio olimpico.
Come vive un’impresa come la vostra l’escalation di violenza in Tibet?
«Certo, le notizie che arrivano scuotono le nostre coscienze e abbiamo il dovere di far sentire il nostro dissenso nei confronti della violenza e la nostra attenzione per il rispetto dell’uomo. Ma l’azione dev’essere diplomatica, guai a pensare a sanzioni».
Vuole dire che «business is business»? Che al di là di dichiarazioni di dissenso non si può andare?
«Voglio dire che solo col dialogo con la Cina possiamo ottenere dei risultati. Dobbiamo rendere evidente il nostro disagio ma sarebbe sciocco e presuntuoso mettere barriere. Si tratterebbe di un’ingerenza e sbaglieremmo».
Sono oltre 1.200 le imprese italiane in Cina. Non c’è imbarazzo di fronte a questi fatti?
«Molte cose non sono come vengono percepite in Europa e nel mondo occidentale. Non parlo dei morti, che ovviamente sono sotto gli occhi di tutti. Mi riferisco agli enormi passi avanti fatti dal Paese per il miglioramento delle condizioni di vita e sul lavoro, specie negli ultimi tre anni. Le cose sono cambiate in modo radicale. E la Cina è una grande opportunità, non è un pericolo».
Però il rischio delle derive del regime è evidente, anche al di là del massacro in Tibet...
«Sì, ma il nostro lavoro può essere solo diplomatico. Le faccio un esempio: quando abbiamo aperto il nostro stabilimento e il governatore dello Jiangsu è venuto a visitarlo, ci siamo premurati di rappresentare le difficoltà che come occidentali abbiamo a capire alcuni atteggiamenti del regime. E lo abbiamo ribadito in altre occasioni di incontro con le autorità locali. Ma oltre non possiamo andare. Non ci compete e non servirebbe».
Lavoro minorile, minoranze perseguitate, diritti umani calpestati. L’economia non deve interessarsi di tutto questo?
«Sì che deve farlo e ogni imprenditore di livello se ne preoccupa all’interno delle proprie imprese. Ma la Cina è un colosso con cui è impossibile non avere rapporti commerciali. E da cui abbiamo molto da imparare».
Niente boicottaggi insomma? Nemmeno commerciali?
«Finirebbero per peggiorare le cose. La Cina emerge da una situazione di sottosviluppo ed è chiaro che attraversi delle fasi alterne. Ma la chiusura non aiuterebbe il Paese a entrare in una nuova era».
Cosa c’è del modello cinese che dovremmo imparare a conoscere?
«L’abnegazione per il lavoro, che non c’entra con la costrizione e lo sfruttamento. In Cina già dalla seconda elementare i bambini vengono allevati e ragionano per grandi obiettivi. Accanto a ogni foto degli studenti viene indicato il loro obiettivo professionale principale. Una cosa che nemmeno i nostri più brillanti laureati hanno imparato a fare».
La Cina non è anche una minaccia per il nostro Paese?
«Sono dei competitori forti, che ci stanno togliendo diverse fasi di produzione. Ma la sfida per noi è saper cogliere il momento per crescere, innovare, conquistarci quote di mercato con prodotti di valore aggiunto. Noi italiani abbiamo dalla nostra la cultura, il buon gusto e anche molto cuore».
Ma in Cina il costo del lavoro è notevolmente più basso...
«Eppure da quando noi siamo presenti lì, abbiamo raddoppiato la nostra produzione, un bene anche per l’Italia».


Se la repressione, come sembra, peggiorasse, lei resterebbe fermo sulla linea della non-ingerenza?
«Sì, noi siamo imprenditori. Condanniamo e ci scandalizziamo per questi fatti, ma è la diplomazia che deve fare il suo lavoro».

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