Lui, Siegfried Lenz, è tra i «grandi» scrittori tedeschi del Secondo Novecento, eppure - almeno in Italia - è assai meno noto di Heinrich Böll, Günter Grass (entrambi premi Nobel), Martin Walser, Hans Magnus Enzensberger, Christa Wolff, Ingeborg Bachmann. Anche Lenz era del celebre Gruppo 47. Inoltre con Grass e Christa Wolff, Lenz condivideva un'altra significativa esperienza di vita, che influenzò profondamente la loro scrittura: erano tutti e tre nati in territori attualmente polacchi. La convivenza, aspra, problematica e insieme affascinante, dei tedeschi con la comunità polacca viene continuamente riproposta, rivisitata nei romanzi, racconti, drammi e radiodrammi di Lenz, che è stato un autore attivissimo e prolifico.
Era nato nel 1926 a Lyck, in Masuria, che abbandonò nel 1943, arruolato in marina e iscritto «d'ufficio» al partito nazista (episodio oscuro della sua biografia). Come per tanti altri della sua generazione, la guerra fu la sua scuola d'antifascismo. Verso la fine del conflitto disertò in Danimarca; fatto prigioniero dagli inglesi, prestò opera di interprete per trasferirsi finalmente nel 1945 ad Amburgo, dove visse fino alla morte, avvenuta nel 2014. Lasciò presto l'università per il giornalismo e infine per l'attività letteraria. Nel 1951 uscì il suo rimo romanzo importante, C'erano sparvieri nell'aria, in cui troviamo il suo tema principale, quasi esclusivo: il confronto con l'opprimente apparato repressivo nazionalsocialista, con il dramma dell'obbedienza, che ha percorso tutta la sua opera, rivelando un autentico impegno morale e una costante interrogazione sulla colpa collettiva, che doveva essere espiata dal popolo tedesco.
Per Lenz si trattava di un mandato interiore che sovrastava l'opera stessa, conferendole un profondo senso etico. Anche per questo la sua scrittura è lontana dal neoespressionismo di Grass e dal neoavanguardismo di Enzensberger. Le sue narrazioni sono all'interno di una forte tensione realista, che conosce dei momenti di autentica poeticità nelle descrizioni dei laghi, dei fiumi, del mare e sempre delle foreste. È qui che affiora la «nordicità» di Lenz, con le remote immagini dell'infanzia in Masuria, terra di foreste, di laghi e paludi. Certo, nei suoi 15 romanzi e nella trentina di racconti Lenz mette in scena le sue narrazioni anche nei paesaggi del mare del Nord, ma la scrittura diventa struggente, commossa e commovente, nella rammemorazione delle terre dell'infanzia e della prima giovinezza, come leggiamo nel suo romanzo appena pubblicato in italiano: Il disertore (Neri Pozza, pagg. 268, euro 17,50, per l'accurata traduzione di Riccardo Cravero).
Il romanzo è già un caso letterario: scritto all'inizio degli anni Cinquanta, quando più fresca e lacerante era la memoria della guerra, fu inviato all'editore, che lo trasmise a un redattore, che da ex aderente alle Ss lo rifiutò, insultando l'autore per avere offeso la patria. Nel 1951 siamo in piena guerra fredda con le due Germanie, sicché le ragioni di un disertore della Wehrmacht non venivano più tollerate. Ma Lenz avvertiva l'esigenza di dare voce a quella diffusa esperienza del dopoguerra quando s'equiparava il regime con il popolo tedesco, certo disorientato e smarrito, ma che non poteva essere identificato con il potere nazionalsocialista. Il racconto restò per 64 anni tra le carte dello scrittore e solo dopo la sua morte nel 2014 venne finalmente ritrovato e pubblicato l'anno scorso, riscuotendo un notevole successo di pubblico e di critica. Il protagonista Walter Proska - con i suoi strani commilitoni, il «Gamba», il «Tonto», il «Pan di latte», al limite del comico, di una comicità che è intinta nella tragedia - è un «bravo» soldato tedesco, fuma, viaggia per servizio, s'innamora di Wanda, una bella ragazza polacca, dai capelli rossi e dagli occhi azzurri, che si rivela essere una partigiana. E lentamente comincia a pensare, a ravvedersi, a criticare il sistema nazista, lui, un uomo semplice di quella moltitudine di solitudini che formava il popolo tedesco alla fine del conflitto, quando appariva giorno per giorno più evidente l'inevitabile sconfitta, l'immane tragedia, la follia dei capi, a cominciare dal Führer, che, a lungo considerato il salvatore della patria, si stava rivelando il vero distruttore della Germania, il capo della «cricca» d'infami.
Questa presa di coscienza provoca la diserzione di Walter. Il romanzo in questo senso è una propaggine del «romanzo di formazione» tedesco, in cui il giovane protagonista matura pagando di persona il duro scotto del ravvedimento, espiando la sua colpa che è quella dei tedeschi, con quel loro insopportabile senso di superiorità (non del tutto accantonato nemmeno oggi, sembra). Ma la grandezza del romanzo è nel vero protagonista: il bosco, il las polacco, più fitto, più primigenio del Wald teutonico. E quando uno scrittore tedesco comincia a inoltrarsi nel bosco, allora risorge l'incanto anche linguistico del romanticismo, quello «eterno», che introduce un'intensa liricità nel testo. Il romanzo è un intreccio di estremo realismo di guerra con la dura, brutale, volgare vita quotidiana di un gruppo di soldati, e di trascinante poeticità naturale: è una miscela che testimonia lo spessore di Lenz, che scrisse Il disertore poco più che ventenne, mostrando una maturità di scrittura che ancora ci affascina.
Solo nel 1968, di nuovo con un racconto ai margini geografici della Germania del nord (la sua Germania) e ai margini della tragedia tedesca, con il romanzo Lezione di tedesco Lenz raggiunge il suo capolavoro, in una sintesi di denuncia dell'ipocrisia nazista, di moralismo luterano e di una struggente poeticità nella rievocazione di indimenticabili paesaggi naturali: è là che Lenz diventa un scrittore di indiscussa grandezza.
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