Dissidenti, specie ignota alla sinistra

Un libro di Paolo Sensini racconta le reazioni di Pci e gruppi extraparlamentari di fronte alle persecuzioni del socialismo reale: si va dal silenzio assoluto alle accuse. Verso i ribelli

Difficile dar torto a Simone Weil quando afferma che il comunismo «è in tutto e per tutto una religione nel senso più impuro della parola. In particolare ha in comune con tutte le forme inferiori di vita religiosa il fatto di essere stato continuamente usato, secondo l’espressione così calzante di Marx, quale oppio del popolo». Si potrebbe aggiungere, all’osservazione della Weil, che questo requisito religioso trova la sua espressione più confacente nella particolare natura chiesastica dello stesso comunismo, nel senso che, considerato nella sua storia complessiva, esso ha presentato proprio i caratteri più classici dell’ecclesiologia, essendo state sempre presenti sia la corrente ortodossa, sia la corrente eretica, dimensioni perfettamente speculari l’una all’altra.
In Italia negli anni Sessanta-Settanta il rapporto tra ortodossi ed eretici si rinviene, rispettivamente, nel Pci e nella sinistra extraparlamentare, mentre la convergenza tra queste due polarità trova la sua espressione emblematica nell’atteggiamento assunto da entrambe riguardo all’opposizione dei dissidenti nei paesi del socialismo reale. Una vicenda ora ricostruita con grande acribia e notevole acume da Paolo Sensini, che, attraverso uno spoglio sistematico di tutta la pubblicistica di estrema sinistra dell’epoca, ci offre uno spaccato significativo della mentalità comunista - sia essa ortodossa che eretica - rispetto al valore supremo della convivenza civile fra gli uomini, vale a dire la libertà: Paolo Sensini, Il “dissenso” nella sinistra extraparlamentare italiana dal 1968 al 1977, introduzione di Luciano Pellicani, Soveria Mannelli, Rubettino, pagg. 223, euro 18.
Osserviamo subito che in Italia l’egemonia comunista nella cultura di sinistra era talmente ferrea da rendere vano ogni tentativo di diffondere le notizie relative al dissenso. Come sottolinea l’autore, i comunisti procedettero sistematicamente a neutralizzare qualsiasi informazione veritiera sulle pratiche poste in essere nel Paese che veniva apologeticamente rappresentato come la patria del socialismo: «calunnie, insulti, impedimenti alla pubblicazione presso le maggiori case editrici, sparizione dei materiali nei magazzini, oscuramento mediatico, impossibilità di poterne dibattere pubblicamente dentro e fuori dalle accademie, congiure del silenzio: queste le armi da loro usate per bloccare la diffusione di ogni notizia». I comunisti, maestri in fatto di censura, stesero sulla cultura italiana un «velo protettivo» in grado di tenerla immune da ogni deviazione ideologica.
Si pensi solo alla vile campagna diffamatoria contro Solzenicyn, additato naturalmente quale autore reazionario e fascista. Osserva Luciano Pellicani nell’introduzione che la cappa del conformismo di sinistra calata sull'Italia negli anni Sessanta-Settanta era così soffocante che Umberto Eco, nel 1976, commentando il successo elettorale del PCI, dichiarò che la visione marxista della società si era imposta «come un valore acquisito» e che essa costituiva un punto di riferimento insostituibile per tutti coloro che lottavano per costruire una superiore forma di democrazia, non più borghese, ma proletaria.
A fronte di quest’azione «pedagogica» da parte degli ortodossi, gli eretici - ovvero gli extraparlamentari - si dimostrarono nella sostanza del tutto subalterni. Quaderni rossi, Classe operaia, Quaderni piacentini, Potere operaio, Lotta continua, Avanguardia operaia, Servire il popolo, solo per ricordare le maggiori testate dei gruppi più importanti dell’estrema sinistra, anche se con modalità diverse, emisero una flebile voce di protesta, dimostrando di essere molto bravi a gridare contro la guerra del Vietnam, ma non altrettanto bravi a battersi contro l’oppressione comunista; bravi a denunciare l’imperialismo americano, ma ancora più bravi nell’inneggiare alla rivoluzione culturale cinese, causa di milioni di morti.
Gli extraparlamentari non imputavano agli ortodossi il delitto di aver abolito ogni libertà nei paesi del socialismo reale, ma quello di aver tradito il socialismo. Il tradimento consisteva nel fatto che, a loro giudizio - un giudizio nel quale si mescolavano ignoranza, stupidità e malafede - questi paesi non erano socialisti, ma capitalisti.

Bisognava dunque imputare alla sostanza capitalista dell’Urss e degli altri Stati della cortina di ferro la negazione della libertà! In tutti i casi extraparlamentari dimostrarono una sostanziale sottovalutazione, per non dire disprezzo, per le cosiddette «libertà borghesi», cioè quelle libertà universali senza le quali, in realtà, non esiste alcuna civiltà.

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