Il Doganiere sdoganato

Leggende e malintesi circondano ancora oggi il Douanier Rousseau, il pittore “ingenuo” e “incolto” dei paesaggi urbani parigini che fanno pensare a De Chirico, dei ritratti femminili che hanno conquistato Picasso, delle favolose, enigmatiche giungle tropicali che ritroviamo nelle foreste di Max Ernst. Negli ambienti artistici fra Otto e Novecento Henri Rousseau detto il Doganiere fu certamente un personaggio fuori posto. Nato a Laval nel nord della Francia nel 1844, impiegato al dazio di Parigi, pittore autodidatta, fu un fedele espositore al Salon des Indépendents e al Salon d’Automne, presto ammirato da Alfred Jarry e Apollinaire, Robert e Sonia Delaunay. Dopo essersi a lungo esercitato a copiare i grandi maestri esposti al Louvre, Rousseau sviluppò un suo stile all’inizio minuziosamente realistico che si fece sempre più fantasioso e inquietante. Max Weber e Kandinskij ne esaltarono la modernità, André Breton il proto-surrealismo, mentre la figurazione primitiva ed esotica delle sue giungle fu interpretata da Picasso, ipnotizzato dalla Incantarice di serpenti, e da Gauguin come la realizzazione del ritorno alle origini e della liberazione dell’inconscio. Ma la ninfa Egeria dei surrealisti, l’idiot savant deriso da Ambroise Vollard, il grande mercante d’arte parigino che acquistava i suoi quadri per due soldi, aveva i suoi detrattori e continua ad averne.
Naïf o visionario, moderno o solo mediocre, il Doganiere viene riproposto da una sontuosa retrospettiva organizzata dalla Tate Modern di Londra con la collaborazione del Musée d’Orsay su un percorso tematico di cinquanta quadri (fra cui opere da Praga, Tokyo e Stati Uniti) che, corredati di documenti e lettere, abbracciano l’intero arco della sua opera, dal 1880 alla morte nel 1910. La rassegna, che in tre mesi alla Tate ha registrato un’affluenza di 300.000 visitatori, ha riacceso la battaglia dei critici sulla sua opera, mentre gli storici dell’arte sono ancora divisi sul suo mistero. Curata da Frances Morris della Tate, da Christopher Green del Courtauld Institute e da Claire Frèches-Thory del Musée d’Orsay, la rassegna Le Douanier Rousseau - Jungles à Paris è attualmente in corso al Grand Palais di Parigi (fino al 19 giugno) in una versione più cronologica, che a fine estate sarà proposta anche in America alla National Gallery di Washington.
Sforzo accademico inutile, ribadiscono molti critici di punta, ricalcando la posizione di Lionello Venturi il quale non capiva «perché l’incompetenza tecnica dovesse essere considerata una virtù». Henri Rousseau non possedeva alcun senso del colore, né dell’impiego della pittura come materiale, né sembra aver partecipato ai fermenti innovatori della sua epoca, i suoi dipinti sono sempre tutti uguali, scrivono quasi unanimi i critici inglesi. «Le sue pseudo-allegorie sono prive di messaggio, la sua opera non è poesia e non è fiaba, Rousseau non è Parsifal».
Ma non è proprio tutto così: basta guardare la sua grande tela della Guerra (1894), straordinaria cavalcata della desolazione, forse dipinta in memoria della guerra franco-prussiana, per pensare Guernica. Rousseau è presente in tutta l’arte del XX secolo. La rassegna riscopre i suoi primi spaccati parigini, paesaggi urbani e quai della Senna immobili e silenziosi, che disobbediscono alle leggi spaziali prospettiche, carichi di un senso di attesa, di imminenza, di vuoto che avvince. Riscopre anche il severo realismo bidimensionale di molti ritratti di donne e gli «autoritratti-paesaggio» da lui inventati, ma sottolinea soprattutto le giungle oniriche che Rousseau, forse attratto dall’immaginario romantico e avventuroso del colonialismo trionfante, dipinge intensamente dal 1905 ispirandosi alla vegetazione e agli animali del Jardin des Plantes a Parigi.
Foreste tropicali di immaginazione nordica, come scrive Christopher Green nel catalogo, luoghi misteriosi nelle cui tonalità contrastanti e impossibili profondità si agitano mille fantasmi, mille gioie e paure. Analizzando il rapporto fra le giungle e il moderno concetto di ipnosi, Pascal Rousseau in un altro saggio del catalogo sottolinea la prevalenza e il potere ammaliatore in questi dipinti del «punto luminoso fisso», come la luna alta e piena nell’Incantarice di serpenti, che sembra riflettersi negli occhi della suonatrice. «L’alfa e l’omega della pittura», disse Félix Vallotton della tigre che sorprende la preda nella prima eccezionale giungla Tigre in una tempesta tropicale (1891) che si ispirava a un pastello di Delacroix.


Morto povero e sepolto in una fossa comune - solo più tardi Picasso e Delauny gli faranno scolpire una tomba da Brancusi -, Henri Rousseau è ancora fuori posto nella storia dell’arte, ma il suo mistero continua ad affascinare anche gli scettici che ancora discutono se il Banquet Rousseau che Picasso organizzò nel suo studio al Bateau-Lavoir nel 1908, mentre il pittore terminava il suo ultimo capolavoro Il sogno, fosse in suo onore o per scherno.
LA MOSTRA
Le Douanier Rousseau - Jungles à Paris, Parigi, Galéries Nationales du Grand Palais, fino al 19 giugno. Washington, National Gallery, dal 16 luglio al 15 ottobre.

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