Alla ipotesi avanzata da Renzo De Felice in Rosso e Nero sulla concorrenza fra i servizi segreti inglese e americano per risolvere la «questione Mussolini» o nel senso di liquidarlo fisicamente o di deferirlo a un Tribunale internazionale, gli storici britannici hanno reagito male. Richard Lamb ha scritto di non aver trovato traccia negli archivi del Public Record Office né del carteggio Churchill-Mussolini né di iniziative poste in essere dal premier britannico per far eliminare il dittatore italiano da agenti dell’Intelligence Service. Pierre Milza, nel volume Gli ultimi giorni di Mussolini, di prossima pubblicazione per Longanesi, replica a tono a Lamb dichiarando di essere molto perplesso di fronte ai verdetti inappellabili pronunciati sulla base della consultazione degli archivi, in particolar modo quando si parla di servizi segreti i cui atti dovrebbero, per definizione, restare celati.
La verità è che indizi o testimonianze, provenienti da ogni parte, sulle intenzioni degli americani sono innumerevoli. Vanni Teodorani, genero del Duce e capo della Segreteria militare della Rsi, ha raccontato le trattative portate avanti nel tentativo di salvargli la vita. Ed ha accennato, anche, al ruolo nella vicenda di un personaggio quasi misterioso, il console americano a Berna, Salvatore Guastoni, il quale, in quei drammatici giorni che precedettero la fine della Rsi, giunse come emissario dalla Svizzera, per trattare la resa e il passaggio di poteri. E di un concitatissimo colloquio con lo stesso Guastoni, visibilmente preoccupato per la sorte del Duce, ha lasciato una testimonianza l’ultimo federale repubblicano di Milano, Vincenzo Costa. L’emissario americano, dopo avere contattato Berna, si mise sulle tracce del Duce ma venne intercettato dal gruppo di partigiani comunisti guidati dal «colonnello Valerio» e fu imprigionato, sia pure per qualche ora, nel municipio di Dongo assieme al capitano Giovanni Dessì che era un agente dei servizi segreti del Regno del Sud. Anche un altro agente americano di origini italiane, il capitano Emil Q. Daddario, era entrato dalla Svizzera per una missione analoga, ma fu battuto sul tempo dal precipitare degli eventi.
Che gli americani, insomma, volessero Mussolini vivo è fuor di dubbio. E non manca chi ipotizza che, alla base di questo loro attivismo per salvare la vita del Duce, vi fosse, pur accanto all'intenzione di imbastire un processo internazionale, anche il sotterraneo proposito di tenere, cinicamente, il Duce in vita, magari in Svizzera, come possibile «riserva anticomunista» se, a guerra conclusa, gli avvenimenti politici fossero evoluti in una deriva filocomunista. È una ipotesi estrema che potrebbe spiegare la «fretta» della «missione Valerio». In un dattiloscritto conservato da Renzo De Felice e destinato a ricostruire le ultime ventisei ore di Mussolini, Yvon De Begnac raccontò che il 28 agosto 1948, l’ex sindaco di Dongo, Giuseppe Rubini, ricevette a casa Giuseppe Negri, l’uomo che aveva riconosciuto Mussolini e lo aveva fatto arrestare, e Michele Moretti, uno dei partigiani che si accreditò come esecutore materiale dell’esecuzione. Proprio quest’ultimo, nel corso di quel colloquio, fece mettere a verbale: «Il Valerio volle la strage subito per timore di un intervento americano».
Le cose, comunque, andarono come andarono e a Piazzale Loreto si concluse la vicenda della Repubblica Sociale. Nel suo libro Pierre Milza ricorda una testimonianza di Giovanni Dolfin che presenta il capo della Rsi come un uomo in uno stato di sfacelo fisico e morale, sofferente, inquieto, nervoso, dall’aspetto sempre stanco e preoccupato. E questa immagine è confermata da altre testimonianze. Ce n’è una, in particolare, poco nota o addirittura sconosciuta, di un singolarissimo personaggio, il poeta francese, Pierre Pascal, che ebbe con Mussolini un lungo colloquio il 2 aprile 1945, poco meno di un mese prima dei tragici eventi. (Fu poi edito dall’editore L’arnia nel 1948 col titolo Mussolini alla vigilia della sua morte e l’Europa). All’epoca, Pascal, che sarebbe morto a Roma nel 1990, era relativamente giovane essendo nato nel 1909, ma aveva avuto una vita avventurosa, come soldato impegnato in tutte le guerre, e come seguace, intellettuale e politico del capo dell'Action Française, Charles Maurras, che aveva eletto a «maestro di vita e di morte». Era diventato noto come traduttore e come poeta ottenendo gli elogi di Gilbert Keith Chesterton. Aveva conosciuto Mussolini dieci anni prima, nel 1935, incaricato di una missione diplomatica «segreta» voluta da Pierre Laval per giungere a un riavvicinamento tra Francia e Italia. Saputo della presenza di Pascal sul Garda, Mussolini lo fece chiamare e il poeta si trovò davanti a un uomo il cui «viso finora colorito, direi quasi sanguigno» era diventato «opaco come sono certi marmi». Il lungo colloquio è sorprendente, per i temi trattati che spaziano dall’arte alla politica, dai personaggi del passato a quelli del presente, dalle battute alle considerazioni sul futuro. Ecco qualche pensiero aforistico: «l’uomo tradito può essere un ingenuo. Il traditore è sempre un infame»; «il coraggio e la bontà: due grandi leve e due grandi punti d’appoggio insieme. L’uno non dovrebbe mai andare senza l’altra. Credo che siano i veri termini della grandezza interiore»; «il senso della gloria non ci viene dalla ragione. La gloria è figlia del cuore». Sugli uomini i giudizi sono lapidari, come quello su Laval: «mi è sempre parso un rivenditore di diamanti falsi. Grande argomentatore e disposto a qualunque cosa». Oppure sono intrisi di nostalgia come nel caso di D’Annunzio: «credo che egli mi abbia amato. Fu veramente l’animatore dei tempi oscuri». Al pessimismo dell’interlocutore francese che prefigura una disintegrazione apocalittica dell’Occidente, ribatte: «l’America non lo permetterà mai». E accenna al «mistero tedesco sempre pronto a cambiare la faccia del mondo», aggiungendo: «i tedeschi sono invincibili. Nonostante tutto, malgrado loro stessi».
(3. Fine)
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