In due milioni sfidano il freddo di Washington

Tutti in strada per sentire il presidente pronunciare (incespicando) le 39 parole del giuramento

In due milioni sfidano il freddo di Washington

La speranza dell'America è un mare rosso, bianco e blu. E quando la speranza è un mare - il mare di una democrazia che indossa con orgoglio i colori della propria bandiera - se ne può infischiare anche di strade e ponti. Perché quel mare dilaga, travolge gli argini, aggira qualsiasi ostacolo, o ancora si interra per poi riemergere come un fiume carsico. Così, ieri, il fatto che le due maggiori arterie che conducono a Washington - le Interstate 395 e la 66 -, nonché i ponti che scavalcano il maestoso corso del Potomac fossero chiusi al traffico privato, è stato un dettaglio del tutto irrilevante.

Perché la speranza di un grande Paese e di buona parte del mondo - racchiusa qui in due milioni di volti e irradiata da quattro milioni di occhi sognanti - è arrivata comunque nella capitale americana a piedi o con ogni mezzo ammesso, spingendo sui pedali di una bicicletta o aggrappandosi alle ruote di una carrozzina, affollando i 10mila autobus a disposizione o stipandosi nel ventre di una metropolitana spremuta al massimo delle potenzialità, 850 vagoni per 120mila passeggeri all'ora, in tutto più di un milione a iniziare dalle prime luci di un'alba freddissima, sottozero.

Tutto e tutti per sentire Barack Obama, 44° presidente degli Stati Uniti - il primo di pelle nera in un Paese che proprio per gli schiavi si dilaniò nella più sanguinosa guerra (620mila morti, dieci volte quelli del Vietnam) della sua storia - pronunciare teso e commosso fino a incespicarvi (ingannato dal giudice che recitava la formula) le 39 immutabili parole che la Costituzione ha lasciato agli eredi di George Washington come formula di giuramento. Formula seguita da quella richiesta - «che Dio mi aiuti» - rivolta al Dio d'America, che è il Dio di tutti e che si può invocare perché il suo potere è soltanto spirituale e non temporale.

Tutto e tutti, ancora, a testimoniare l'apertura mentale e l'intelligente serenità di un popolo che pur così atrocemente violato dall'estremismo islamico ha mandato alla Casa Bianca un uomo che per secondo nome fa Hussein. Tutto e tutti per provare insieme un brivido lungo la schiena - e non era il freddo -, oltre al battito cardiaco accelerato, sotto la mano destra, dalle note maestose dell'inno nazionale. Tutto e tutti a trattenere o a lasciar andare - massì, che vada pure - una lacrima strappata fuori dalla voce ieri forse un po' roca, ma sempre assolutamente unica, di Aretha Franklin. Una voce che non è di questa terra, che è dell'anima e che non occorre essere neri per piangere.

Fin qui la gente, quel mare di speranza tinto di rosso, di bianco e di blu che ondeggiava, applaudiva e incitava - entusiasta e composto al tempo stesso - lungo quella prospettiva imperiale (disegnata non a caso da un architetto francese, Pierre Charles l'Enfant) che dall'immacolata autorità del Campidoglio, giù giù lungo il Mall, porta fino ai 166 metri dell'obelisco eretto nel nome di George Washington.

Mentre lassù, sul palco, oltre al nuovo emozionatissimo presidente, alla nonna africana in copricapo etnico, alle sue due ragazzine sempre sorridenti e alla bella Michelle in mise giallo oro da grande magazzino che se lo mangiava con occhi al tempo stesso innamorati di una moglie e orgogliosi di una madre, sfilava sì il potere americano di oggi, dal vicepresidente Joe Biden alla leader del Congresso Nancy Pelosi, ma anche e soprattutto quello di ieri.

Da un George W.

Bush con l'aria quasi rilassata di chi esce di scena dicendo «bè, anche questa è andata», a suo padre George senior, invecchiato di colpo, zoppicante, malamente gonfio in viso e vistosamente claudicante; da un Jimmy Carter forse scadente condottiero, ma a cui non si può voler male non fosse altro che per quell'eterno e dolcissimo sorriso sudista stampato sulla bocca, per giungere infine alla coppia delle coppie, a Bill e Hillary Clinton, visibilmente incapaci di contenere la gioia dietro le dentature di porcellana. Perché quella stagista sovrappeso è soltanto un ricordo lontano e rimosso. E perché, anche se l'ingresso è laterale, si rientra pur sempre alla Casa Bianca.

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