Duilio Loi, ritratti dal ring

C’era una volta il re dei nasi schiacciati... Non è una favola, ma un pizzico di leggenda. Il re dei nasi schiacciati era tutto, tranne uno che amasse prendere pugni. Un tipo freddo, calcolatore, lucido, furbo come un’impunita birba ma con l’orgoglio di chi sa accettare la sofferenza sul ring. Veder rivivere Duilio Loi in una storia di fotografie significa rituffarsi nell’epopea gloriosa della boxe milanese e della boxe italiana. E forse più.
L’idea è di Vito Liverani, uno dei grandi fotografi sportivi italiani, una passione per il pugilato srotolata in 64 anni di flash tra ring, palazzi dello sport, stadi calcistici. Mostra corredata da filmati d’epoca e cimeli pugilistici, che vivrà dal 1° al 18 settembre (ingresso gratuito) nella sala delle Colonne alla Fabbrica del Vapore di via Procaccini, l’antico deposito dei tram milanesi, accanto al Cimitero Monumentale dove Loi riposa da un anno e mezzo (morì il 20 gennaio 2008) e nemmeno lontano da alcune delle grandi Arene (San Siro, il Vigorelli) dove il campione chiamò a raccolta oceaniche folle di amanti della boxe.
Milano è stata la città adottiva di Loi, triestino di nascita, sardo di sangue, la metropoli delle conquiste, il regno e il teatro. Ma anche il mondo delle sue tragedie personali e familiari. E quando lo vedevi nella vecchia trattoria di via San Vittore, indaffarato tra piatti e ricordi, ne riconoscevi la dimensione dell’uomo che fece grande il pugile. Negli anni della gloria, anni cinquanta, “il Duilio”, come dicevano a Milano, faceva affollare i bar con televisione: nessuno poteva perdersi il match. Si fermavano i tram. Come capitò tanti anni prima con Erminio Spalla, che conquistò all’Arena napoleonica l’europeo dei pesi massimi. Resta ancora legato al suo mondiale, con il portoricano Carlos Ortiz, il record d’incassi per uno spettacolo pugilistico: 61.900 paganti, introito di 120 milioni di lire. Cifre da favola. Quella sera Loi si vendicò della sconfitta subita negli Stati Uniti e conquistò il mondiale dei welter juniors, il suo mondiale. Giusto 49 anni fa domani: il 1° settembre 1960, proprio mentre a Roma erano in corso i Giochi olimpici. Ma Loi non temeva confronti, ha combattuto 72 dei suoi 126 incontri a Milano e la città non lo ha mai abbandonato, ha trascinato le folle, simpatico o antipatico che fosse.
I pugni contribuirono a creare il personaggio e l’idolo, ma anche la stampa e gli uomini che ne accompagnarono la carriera. Fu un robot acchiappa danari per la Sis (società imprese sportive) gestita da Vittorio Strumolo, ebbe come manager Giovanni Busacca e Umberto Branchini, gente che sapeva far fruttare il talento. Aveva per sponsor la Ignis di Giovanni Borghi, il “cumenda” che rese famoso il marchio sulle maglie della squadra di basket di Varese.
Era un omino da 63 chili abbondanti, ma quando saliva sul quadrato diventava il campione. Non a caso, in 15 anni di carriera, solo tre avversari riuscirono a sconfiggerlo. Era scaltro, infinocchiò giudici e arbitri. Usava qualche gherminella che fece infuriare i suoi nemici. Mai banale. Vinse prima fra i leggeri, poi fra i welters junior.
Duilio rifiutò l’avventura americana, avendone intuito i rischi. Conobbe Frank Sinatra e una bionda avventuriera che voleva sposarlo, ma preferì tornare alla famiglia lasciandosi cullare dagli organizzatori italiani.
È stato un idolo in cui identificarsi nell’Italia del boom economico, l’uomo che lanciava la nuova Lambretta, le immagini di un suo match con l’americano Wallace Bud Smith, divennero sigla del notiziario sportivo della Rai. Non proprio una bellezza di match, molto criticato perché l’americano, ex campione del mondo, era ormai una larva.
Il palcoscenico di Milano, teatro Nazionale o Vigorelli, San Siro o Palasport, lo accompagnò senza tradirlo mai. Peggio fecero i pugni. La sofferenza nei tre match con Eddie Perkins, l’americano scorbutico che fu la sua bestia nera, annunciò il declino.
Se l’ultimo match con Carlos Ortiz fu il marchio di qualità, una storia tragica e shakespeariana scandì gli ultimi due match della carriera di Loi. Perse e vinse contro Perkins eppoi chiese a Dario Bensi, il suo antico maestro: «Cosa ne pensi?». E quello lo guardò dritto negli occhi: «Sei arrivato».
Ed allora, ancora campione, a 33 anni, Loi convocò al ristorante giornalisti e amici e disse: «Basta, ho chiuso».

Usò un chiodo dorato per appendere alla parete di casa quella cintura. Un giorno raccontò: «Valeva almeno 80mila dollari». Circa 50 milioni del tempo.
Anche nelle foto la cintura non è mai scolorita. Valeva davvero oro.

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