E i cecchini di "Repubblica" ora mirano su D’Alema

Max minacciato per avere aperto al dialogo. E perfino Bersani rischia di finire nel tritacarne

E i cecchini di "Repubblica" ora mirano su D’Alema

Roma Cronache marziane. Se il mondo avesse ruotato nel senso visibile dalla finestra di Repubblica, ci saremmo risparmiati gran parte delle fatiche degli ultimi anni. L’Italia forse sarebbe stata migliore. Un esempio? Ecco qualche titolo immaginario, in linea con l’astronave dei desideri del maggiore quotidiano del centrosinistra. Primo titolone, il 28 giugno 1983: «Il trionfo di Ciriaco», catenaccio: «De Mita stravince, Craxi esule a Parigi». Secondo titolone, 10 novembre 1989: «Cade il Muro, il Pci fuori dal guado». Terzo, 18 aprile 1990: «Governissimo De Mita-Occhetto».
Un crescendo di meraviglie, fatto salvo l’impatto con imponderabili conseguenze di questo affettuoso strabismo, che denomineremmo «di Eugenio» se non fosse un fattore ereditario, e dunque anche «di Ezio». Ecco perciò come sarebbe finita la cronaca del mondo secondo Repubblica. 18 febbraio 1992: «Arrestato De Mita, avviso per Occhetto». Editoriale: «Mica rubavano, aiutavano il partito». Commento: «Fermate quei giudici antidemocratici». 19 gennaio 1998: «Bettino torna in Italia». 23 dicembre 2009: «Tutti sì, parte la Grande riforma».
Ma da quando la ruota della politica s’è messa a girare in senso inverso a quello desiderato, è un bel guaio per molti dei valorosi colleghi di Repubblica. Abituati a indicare l’orizzonte a De Mita e poi Prodi, a Rutelli e quindi a Veltroni e Franceschini - sicuri di poterne verificare l’affidabilità il giorno dopo - già con Pier Luigi Bersani si sono ritrovati in qualche ambascia. Da quando infine è tornato in campo persino Massimo D’Alema, i giornalisti di largo Fochetti devono fare veri e propri salti mortali. E se la linea che il Pd vorrebbe seguire smentisce Di Pietro e Franceschini, Pancho Pardi e Rosy Bindi, ecco che il triplo carpiato tocca persino al vicedirettore Massimo Giannini, che da anni interpreta i desideri di Max D’Alema prima ancora che li esprima. Nel suo fondo di ieri è arrivato a definire «patto scellerato» la proposta dalemiana di dialogo e a intendere come «pessimismo del Colle» la prudenza di Napolitano. Inutile dire che il presidente della Repubblica (quella vera), ieri stesso, ha voluto precisare che lui non nutre «né pessimismo né ottimismo», bensì una «ragionevole fiducia».
Lo smacco è stato totale e in qualche modo inevitabile. Fatto è che il lungo editoriale di Giannini tradiva, nel finale, la visione autoctona e autoreferenziale della direzione del quotidiano. Così Giannini citava Kant e la sua «repubblica dei diavoli» (lapsus freudiano?). Ora, se è vero che la filosofia aiuta a smaltire le delusioni, potremmo consigliare ai colleghi anche la kantiana «critica delle false certezze», saldamente fondata sul «metodo del dubbio». Scrive il grande filosofo, tra le sue annotazioni pubblicate postume (Bemerkungen) che «la metafisica si potrebbe dire una scienza dei limiti della ragione umana. I suoi dubbi non eliminano la certezza utile ma quella inutile». E più avanti, ricordando l’importanza di Rousseau e i suoi insegnamenti, Kant gli si dichiarava debitore in quanto «l’opinione della disuguaglianza rende disuguali anche gli uomini. Solo la dottrina del dottor Rousseau può far sì che anche il più dotto dei filosofi con il suo sapere non si consideri migliore dell’uomo comune... C’è stato un tempo che disprezzavo il popolino che non sa nulla. Rousseau mi ha rimesso a posto».
Questo per dire che forse, alle analisi e alla metafisica scelta da Repubblica, qualche onesto dato della realtà potrebbe giovare. Ci sarà pure una ragione, per la quale Silvio Berlusconi da quindici anni riesce a decapitare il centrosinistra e a riscuotere la fiducia delle masse. Può essere sempre e solo colpa del destino «cinico e baro»? E se l’unico politico di sinistra che pensa di tenergli testa dice (banalmente) di prenderne ormai atto, è per ciò stesso un «nemico del popolo»? Lo spiazzamento dei colleghi della Repubblica sembra inevitabile, ma non troppo giustificato. Avere puntato ancora una volta sul tavolo dei perdenti, non significa dover per forza giocare al rialzo nella speranza di potersi rifare. Basti leggere il sondaggio dell’altro giorno, non di marca berlusconiana: Di Pietro a picco, il premier in risalita. Sarà pure «strumentalizzazione di Tartaglia» o troppo «fresca» l’ ispirazione «gandhiana» di Berlusconi.

Ma nelle stanze di largo Fochetti è mai sceso il beneficio del dubbio? Il sospetto marziano che sia del tutto controproducente strillare sempre al «patto scellerato» e intimare al Pd di «resistere alle sirene berlusconiane»? Se è solo questione di marketing, parliamone pure. Ma senza scomodare il filosofo di Königsberg.

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