E ora Milano deve tornare a pedalare

Altro che locomotiva economica: il capoluogo lombardo è prigioniero da anni di progetti mai realizzati per conferirgli lo status di supermetropoli. Eppure senza la sua capacità di fare si blocca il sistema-Paese

Tra Roma e Milano - per quanto riguarda i riconoscimenti storici, le attestazioni ufficiali, i discorsi ispirati - non c’è partita. Una città che si fregiò - legittimamente - della qualifica di caput mundi surclassa, con il suo latinorum, una città che deve accontentarsi del milanese di «o mia bela Madunina». Dunque Milano è costretta adesso ad assistere al trionfo dell’Urbe: consacrato da un Consiglio dei ministri e solennizzato dal centoquarantesimo anniversario del giorno in cui la capitale divenne tale a tutti gli effetti.

S’è molto impegnata, Milano, per far credere di essere la «capitale morale», e tutto sommato c’è abbastanza riuscita. Resta da chiedersi quanto giovi essere «capitale morale» in un Paese che alla moralità non è propenso. Sul primato del nord ha insistito e insiste la Lega, ai cui occhi Roma è più che altro ladrona. Ma nella realtà dei fatti non è che Milano abbia assolto pienamente, negli ultimi tempi, quel compito di locomotiva d’Italia che si riteneva le fosse stato assegnato dalla storia.

Anche Milano ansima. I progetti per darle, con qualche espediente burocratico, statuti e competenze che si differenzino da quelli delle altre maggiori città sono falliti o stagnanti. Il Carroccio registra una crescita trionfale, a Palazzo Chigi s’è insediato un presidente del Consiglio che impersona le caratteristiche del lombardo di successo, ma le vischiosità di palazzo e le sottigliezze bizantine sembrano più forti del «fare» di Silvio e del ruggire di Umberto. Milano si sente misconosciuta e perfino estranea, quando Roma sfodera le sue credenziali millenarie. A poco le serve rivendicare i primati nel pagamento delle tasse e nella produttività. Che sono primati un po’ sciocchi, secondo molti «nordici», se poi le leve del potere politico e amministrativo stanno altrove.

Si tratta di indennizzare Milano e il nord e - perché no? - l’Italia salvo Roma. Ma come farlo se i tifosi della Padania rinnegano il tricolore e inseguono a male parole chi lo porta, se i mandarini ministeriali si arroccano nei loro privilegi, se il Meridione si scatena in una campagna di recriminazioni e d’insulti contro i barbari calati dal Piemonte? Con l’aria che tira sembra d’essere alla vigilia non d’una riabilitazione e d’un indennizzo, ma d’una condanna senza appello delle rivendicazioni milanesi non leghiste e insieme, retrospettivamente, degli ideali risorgimentali.

Nel Manifesto per i 140 anni di Roma Capitale, scritto benissimo e argomentato con intelligenza, il dissidio tra il nuovo Stato italiano e la Chiesa è trattato riduttivamente, perché «Roma non poteva negarsi all’Italia e l’Italia a Roma». Sottolinea il Manifesto che al processo unitario restarono estranei il mondo contadino, il mondo cattolico e il mondo meridionale. Ma proprio questo fu il merito, e insieme la debolezza del Risorgimento: l’avere agito come minoranza attiva. Milano non fu allora protagonista, non almeno come lo fu la monarchia sabauda, e ha avuto uno sviluppo civile, economico, culturale ben distinto da quello di Roma. La cosiddetta «capitale morale», le cui glorie appartennero a una borghesia illuminata e a un ceto popolare avanzato, finisce nell’angolo in questi clangori di memorie romane e in questi furori di revanscismi meridionali. La metropoli dell’Italia ricca deve ritrovare l’orgoglio della sua forza e la certezza del suo diritto a guidare l’attesa e (speriamo) imminente ripresa economica. Per la quale servono senza dubbio progetti e idee innovative. Non possiamo vivere e lavorare con l’ossessione della Cina.

Ma a mio avviso serve soprattutto la convinzione che senza Roma l’Italia subirebbe una perdita irreparabile in prestigio e bellezze, ma senza Milano perderebbe tutti i treni europei e mondiali. Milano è indispensabile quanto Roma, quali che siano le decisioni degli illustrissimi ministri.

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