Sarebbe sufficiente citare Hayek - «le emergenze sono sempre state il pretesto per erodere le garanzie della libertà» - per testimoniare come il ricorso all'emergenza diventi nelle democrazie occidentali uno strumento limitante le libertà individuali e i principi democratici. Non a caso Andrea Venanzoni, giornalista e dottore di ricerca in Diritto pubblico, apre il suo libro La tirannia dell'emergenza (Liberilibri, pagg. 138, euro 16) con la citazione di Hayek tratta da Il sistema politico di un popolo libero.
Venanzoni si interroga su come l'utilizzo del concetto di emergenza sia diventato negli ultimi decenni in Occidente uno strumento per «disarticolare le garanzie poste a tutela delle libertà e facendo regredire, spesso, i cittadini a meri sudditi». Lo fa partendo dalle principali occasioni in cui si è verificata questa situazione: la minaccia del terrorismo, la pandemia di Coronavirus e il cambiamento climatico.
Elemento centrale per giustificare l'adozione di misure emergenziali, più che il concetto di crisi, è l'evocazione della morte «trasformata nella più radicale e potente tra tutte le emergenze. O peggio ancora: la risultante di qualunque emergenza non affrontata dalle istituzioni con il giusto pugno di ferro». La necessità di scongiurare la morte la trasforma «lentamente in uno strumento di controllo e di reiterazione del dominio sociale».
Si tratta di un concetto citato a più riprese nel corso del libro ed emerso in tutta evidenza durante la pandemia che «è stato solo il passaggio perfezionato di una lunga serie di emergenze precedenti che tra loro intersecate avevano già spianato la strada all'espansione degli appetiti dei pubblici poteri, alla sorveglianza capillare e alla messa in stato di accusa delle libertà».
Durante l'emergenza la libertà non solo viene considerata qualcosa di accessorio ma un fastidio e un intralcio (in sfregio ai principi costituzionali) alla pervasiva presenza dello Stato in ogni ambito della vita spostando «più in avanti la soglia di limitazioni, di controllo, di regressione delle garanzie e delle libertà, infiacchendone il senso e il valore». Così lo Stato si espande in un'attività iper regolatoria entrando in ambiti che dovrebbero competere al singolo individuo con l'intento di «proteggerci».
In questo contesto il rischio di passare da uno stato di emergenza a uno stato di eccezione è più che un'evenienza: «Quando ci si riferisce all'emergenza legata al cambiamento climatico, al terrorismo o a una pandemia, gli strumenti giuridici utilizzati sono sì quelli degli stati di emergenza ma la sostanza profonda è quella di un'eccezione».
Ogni fase emergenziale porta con sé non solo una normativa caratterizzata da un'espansione senza freni e senza limiti della sfera pubblica ma un «aspetto ancor più grave è il clima culturale» che si viene a creare con una predisposizione della popolazione ad accettare limitazioni alle proprie libertà e garanzie. L'opinione pubblica si trasforma così «in un dispositivo di strutturazione del potere e assume un'enorme importanza» portando, come già denunciava Thomas Hobbes ne Il Leviatano, a una «sola verità ammittibile dalla compagine statale» e generando «una comunicazione unilaterale e un'opinione pubblica instradata verso il risultato del potere». Ogni forma di dissenso viene perciò marginalizzata e delegittimata in uno schema comunicativo ben noto che tende ad affibbiare etichette e soprattutto a mettere sullo stesso piano contestazioni fini a se stesse e complottiste con critiche nel merito e giuridicamente fondate. Su questo Venanzoni è molto chiaro: «Le farsesche espressioni che spesso punteggiano il fiorire di stati emergenziali, come dittatura securitaria o dittatura sanitaria, usate di frequente dalla narrazione dominante proprio per rinfocolare l'idea che il dissenso sia esercitato da soggetti privi di senso della realtà e delle proporzioni, sono espressioni profondamente sbagliate». A suo giudizio non pongono la necessaria attenzione su ciò che davvero conta in una fase emergenziale: il dominio burocratico come strumento di controllo. Lo sottolinea anche Lorenzo Castellani nel suo ottimo saggio L'ingranaggio del potere in cui spiega che «dove c'è guerra c'è tecnocrazia», è sufficiente sostituire il termine guerra con emergenza per fotografare la situazione che si viene a creare. Ne è testimonianza il ricorso pervasivo ai comitati tecnico-scientifici e ai tecnici nelle fasi emergenziali utilizzati non come strumenti consultivi bensì giustificativi di misure che la politica si limita a ratificare, più che a valutare.
La sensazione che rimane, terminata la lettura de La tirannia dell'emergenza, è l'assenza di consapevolezza da parte della stragrande maggioranza della popolazione di cosa ha comportato negli anni passati (creando un precedente) l'accettazione di limitazioni a trecentosessanta gradi delle nostre
libertà individuali. Ciò che preoccupa di più è la facilità con cui le misure emergenziali potranno tornare ad essere introdotte nelle democrazie occidentali: ieri era il Covid, oggi il cambiamento climatico, domani chissà.
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