La Bce alza i tassi di un altro mezzo punto, portandoli al 3%, annuncia per marzo un'altra stretta della stessa entità, ma sui mercati è una giornata da ricchi premi e cotillon. Scendono i rendimenti dei Btp sotto il 4%, scivolano di venti punti tutti i bond sovrani, corrono le Borse (+1,5% Milano, +1,4% lo Stoxx600). Un apparente cortocircuito, da illogica euforia, stando al mantenimento della postura rigida da parte dell'Eurotower. Tale, a una prima analisi, da accreditare di nuova forza i falchi del board e creare uno iato ancora più profondo rispetto alla Federal Reserve, mostratasi più flessibile mercoledì scorso con il ritocco all'insù di un quarto di punto dei tassi. Eppure, dopo mesi in cui la politica monetaria ha espresso solo il monotematico imperativo di combattere l'inflazione senza troppo curarsi delle ricadute economiche, gli investitori vedono qualche crepa aprirsi nelle certezze di Francoforte. Leggono quanto più fa comodo nelle parole della presidente Christine Lagarde, tra le voci più potenti a difendere la narrazione hawkish a partire dallo scorso luglio, mese di inizio delle manovre restrittive. «Per febbraio e marzo c'è un accordo generale su 50 punti base (di rialzo del costo del denaro, ndr) - è l'esordio nella conferenza stampa di ieri - . L'intento, per quanto riguarda l'aumento di marzo, non è irrevocabile». Tradotto con un «nulla è già scolpito sulla pietra» dai mercati. Convinti che quel «consenso piuttosto forte sulla necessità di aumenti significativi» di cui parla l'ex leader del Fmi andrà, nella riunione di metà marzo, valutato e soppesato attentamente. Fino al punto da non escludere a priori la possibilità di un giro di vite circoscritto allo 0,25%. E questa sarebbe una svolta, se solo si ricorda che in dicembre l'ex capo del Fmi minacciava altre tre strette da 50 punti base, da incasellare nei primi mesi del '23. Speranze mal riposte? Di sicuro, dove i mercati lavorano di fantasia è sulla possibilità che con marzo la Bce deponga le armi. Un'ipotesi liquidata con un secco «no, no, no» dalla leader della banca centrale europea. «Sappiamo che non abbiano finito e che il 3,50% non sarà il picco, c'è ancora strada da fare». Dopo marzo, aggiunge, «dovremo valutare» i dati economici.
Da qui a un mese e mezzo, sarà infatti ancora l'inflazione a determinare da quale parte penderà l'ago della politica monetaria. I rischi sul fronte dei prezzi sono ora diventati «bilanciati», ha detto Madame Bce. Con ciò sottolineando una scarto laterale rispetto ai «rischi al rialzo» segnalati a fine 2022.
Non siamo ancora al cambio di paradigma, ma di sicuro l'arretramento superiore al previsto del carovita nell'eurozona (8,5% in gennaio dal precedente 9,2%) toglie incisività alla narrazione dei falchi, a cominciare dal numero uno della Bundesbank, Joachim Nagel (nella foto). La primavera dovrebbe d'altra parte attenuare ulteriormente le spinte inflazionistiche derivanti dai prezzi dell'energia e, di conseguenza, alleggerire anche le pressioni sul versante «core». Facendo così venir meno l'esigenza di quelle misure di sostegno da parte dei governi sgradite alla Lagarde in quanto «creano pressioni sull'inflazione e questo richiede una risposta di politica monetaria più forte».
C'è un altro aspetto, finora relegato a fastidioso rumore di fondo, che va comunque emergendo: è il deterioramento del ciclo economico. I rischi per la crescita economica sono infatti stati portati da «bilanciati» a «al ribasso». È il segno degli effetti collaterali provocati dalla cura contro il carovita, già ben visibili nella «brusca decelerazione» subita dai prestiti bancari e dal probabile «rallentamento della velocità con cui vengono creati posti di lavoro». La Bce deve quindi riflettere: il pericolo di una recessione pare sia stato per ora scansato, ma esagerare con la stretta monetaria potrebbe far cambiare lo scenario in un momento, peraltro, in cui l'Eurotower sta tirando in barca i remi degli aiuti.
Ieri è arrivata infatti la conferma che a partire da marzo e fino alla fine di luglio, dal bilancio verranno tagliati titoli acquistati nel quadro della cosiddetta App (il vecchio piano di acquisti di Mario Draghi) per un controvalore pari a 15 miliardi di euro al mese. Il portafoglio «pandemico» (Pepp) sarà invece reinvestito in pieno almeno fino alla fine del 2024. Quando i tassi avranno finalmente smesso di salire sull'ascensore.
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