La Cina svaluta lo yuan e mette in allarme le Borse

Pechino muove a difesa dell'export, in frenata, ma ora il rischio è la guerra monetaria. Milano e Francoforte perdono terreno. Il nodo dei tassi della Fed

La Cina farà di tutto per proteggere la propria economia: anche a costo di innescare una guerra delle valute. È questo il messaggio forte inviato ieri da Pechino, accompagnato dalla mossa di svalutare di circa il 2% lo yuan rispetto al dollaro. Era dal 2005 che il Dragone non imponeva alla propria moneta una svalutazione forzata così netta. E tanto la portata quanto l'inusualità della manovra, un segno di crescente debolezza dei fondamentali macroeconomici cinesi, ha messo subito in allarme i mercati innescando una corrente di vendite. Ad averne la peggio, Francoforte (-2,75%). E un motivo c'è: il tonfo del settore auto, molto presente in Asia. Milano ha invece limitato i danni a un -1,12%, ma il dato finale nasconde la profonda sofferenza dei titoli del lusso come Ferragamo (-5,50%), il marchio più esposto in Asia e Pacifico, Moncler (-3,20%) e Tod's (-3,18%). Uno yuan indebolito, infatti, è destinato ad assottigliare ricavi e utili di alcune delle principali bandiere del made in Italy. Per Wall Street, in calo dell'1,3% a un'ora dalla chiusura, il discorso non è solo legato al possibile calo delle esportazioni verso l'ex Impero Celeste, ma anche all'imbarazzo che la Federal Reserve, alla luce del contestuale apprezzamento del dollaro, potrebbe avere dopo la pausa estiva ad alzare i tassi.

Problemi che certo non condizionano la Cina, già impegnata in luglio a fronteggiare la débâcle della Borsa, alle prese con una massiccia fuga di capitali e con il generale rallentamento dell'economia (calo di consumi, immatricolazioni, investimenti e import) fotografato dall'aumento del 7% del Pil nel secondo trimestre e dalla frenata delle esportazioni, ai minimi da sei anni. Anche se le autorità hanno più volte ribadito di voler imprimere una svolta al Paese, incentivando i consumi interni, era impensabile che un pilastro come l'export non sarebbe stato protetto. E la misura dall'effetto più immediato è l'indebolimento dello yuan, anche se la mossa potrebbe indurre il Fondo monetario internazionale a ritardarne l'inserimento nelle sue riserve e a scatenare una guerra di valute fino a ora limitata a una guerriglia che ha visto scendere anche le monete di Australia, Sud Corea e Singapore. Per non parlare delle possibili implicazioni sui prezzi delle materie prime, soprattutto il petrolio (ieri a New York a 43,14 dollari, minimo da sei anni), fino a ora inghiottite in maniera crescente dalla “fabbrica del mondo“.

Sullo sfondo, i problemi verso cui potrebbero andare incontro le nostre aziende del lusso.

D'altra parte, uno yuan più debole riduce il gap di prezzo dei beni di lusso con l'Europa e riporta in patria parte della spesa dei consumatori cinesi in beni di lusso. Questo, secondo gli analisti di Exane, ha un probabile effetto leggermente diluitivo sugli utili delle società del lusso europee.

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