I mercati non hanno fatto neanche un plissé, giovedì scorso, dopo l'annuncio che l'inflazione è schizzata in maggio negli Usa al 5%, il livello più elevato dal 2008. A Wall Street e dintorni è ormai maturata la convinzione che la Federal Reserve non muoverà un dito nella riunione di mercoledì prossimo. Rispetto ai timori di qualche tempo fa, secondo cui l'ascesa dei prezzi avrebbe indotto la banca centrale a rivedere in anticipo la politica monetaria, questo cambio di prospettiva ha qualche fondamento. In parte determinato dalle rassicurazioni sulla transitorietà del fenomeno fornite a più riprese dal capo di Eccles Building, Jerome Powell.
Nessuno, tuttavia, può dire con certezza se davvero la fiammata del carovita si spegnerà nei prossimi mesi. Le statistiche ufficiali, peraltro, tendono a mascherare più che a enfatizzare le tensioni inflazionistiche. Un indicatore che misura i prezzi soggetti a forti variazioni mostra per esempio che l'inflazione è cresciuta di oltre il 12%, un picco che non si vedeva dal dicembre 1980. Qualche anno dopo, l'allora presidente della Fed, Paul Volcker dovette intervenire con una serie brutale di rialzi dei tassi per evitare una deriva iper-inflazionistica. Si tratta di un precedente che nessuno vuole ripetere.
La Fed di oggi è a un bivio: può ancora temporeggiare, come quasi sicuramente farà, in attesa di vedere se le spinte sui prezzi saranno riassorbite dal prevedibile rallentamento della crescita una volta che gli effetti degli stimoli federali si saranno del tutto dispiegati. Il wait and see è la soluzione più gradita dai mercati, seppur non priva di rischi. Primo fra tutti, incoraggiare il moral hazard in un momento in cui i listini sono sui massimi anche grazie all'irrobustimento della ripresa. L'alternativa però esiste: ovvero, interrogarsi se non sia il caso, magari approfittando dell'appuntamento agostano di Jackson Hole, di iniziare a gettare le basi del futuro tapering. È l'unico modo per uscire dal cul de sac in cui la Fed si è infilata. L'istituto di Washington acquista infatti ogni mese bond sovrani e titoli ipotecari per un controvalore pari a 120 miliardi di dollari. Uno sforzo finanziario che ha gonfiato il bilancio della banca fino a toccare quota 8mila miliardi, una cifra doppia rispetto al periodo iniziale della pandemia.
La domanda che non pochi economisti si pongono è questa: se la Fed non diminuisce gli aiuti quando l'economia è in espansione, quando potrà farlo? È vero che la strategia imposta da Powell ha spostato l'ago della bilancia sul versante della piena occupazione, ma proprio il mercato del lavoro rischia di diventare un conundrum, un rebus di difficile soluzione. Perché è qui che si annidano i pericoli di un'inflazione persistente e non effimera. In America ci sono ancora 10 milioni di lavoratori considerati disoccupati, più oltre quattro milioni di persone che hanno lasciato il posto che occupavano.
Più tempo ci vorrà per riportare questo esercito nella forza lavoro, più le aziende dovranno alzare le paghe. Con il risultato di creare pressioni inflazionistiche a lungo termine che nemmeno la Fed potrà a lungo sopportare.
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