A parte Roberto Bolle, non c'è nulla di più ballerino delle stime sul mercato del lavoro statunitense. E, quindi, vanno presi con le pinze i 339mila nuovi posti di lavoro creati in maggio negli States, proprio quelli che ieri hanno mandato in brodo di giuggiole Wall Street (+1,7% un'ora dalla chiusura) e le Borse (+,1,8% Milano, +1,5% lo Stoxx600) nonostante la probabile inarcata di sopracciglio alla Ancelotti con cui il capo della Fed, Jerome Powell, ha accolto il dato. I mercati, che ogni tanto andrebbero analizzati tenendo a portata di mano Karl Jaspers, danno infatti ora un 40% di probabilità a un rialzo dei tassi nella riunione del 13-14 giugno e si spingono a scommettere su un giro di vite quasi sicuro (80% di chance) perfino in luglio. Se prima si ragionava sul possibile pivot ormai raggiunto dal costo del denaro, ora non viene scartata l'ipotesi di una striscia lunga 12 strette. Con un evidente cortocircuito logico rispetto alla reazione euforica di ieri dei listini.
A dispetto di un Joe Biden ringalluzzito dal sì ricevuto anche dal Senato all'intesa sul tetto del debito e pronto ad appuntarsi sul petto la medaglia da homo faber («Abbiamo creato 13 milioni di posti da quando ho assunto l'incarico»), Jay si trova a maneggiare una rosa piena di spine. E rischia di pungersi. Il sistema bancario, ancora così carico di tossine nei suoi gangli regionali, consiglierebbe di non toccare nulla nella stanza dei bottoni per evitare di incancrenire il deprezzamento dei bond (fenomeno causato proprio dai molteplici irrigidimenti dei tassi) in pancia agli istituti. Ma l'inflazione non sta rallentando abbastanza, facendo aumentare il pressing dei falchi dell'istituto che chiedono di non mollare la presa, e il mercato del lavoro presta il fianco a interpretazioni contrastanti. Le statistiche del Bureau of labour statistics (Bls) sono, non a caso, soggette a profonde e ripetute revisioni. Questa volta, l'Istat a stelle e strisce ha ritoccato al rialzo i payroll di marzo e aprile di 93mila unità; in genere avviene l'esatto contrario in ossequio all'«abbondandis in abbondandum» di Totò. È anche con queste cifre fortemente approssimative con cui la Fed deve fare i conti quando calibra le proprie scelte. Il mercato del lavoro Usa non è invece privo di contraddizioni, visto che la Household Survey (l'indagine basata su un campione di famiglie) ha segnalato un calo di 310mila posti di lavoro durante il mese scorso. Questa discrepanza può essere spiegata dal fatto che il Bls usa ipotesi statistiche basate su quante nuove imprese sono state create nel mese e su quelle calcola i lavoratori (potenzialmente) assunti. Il tasso di partecipazione al lavoro, che è un termometro più fedele per esprimere come stanno le cose, è rimasto invariato rispetto a marzo (al 62%). Poi, va posata la lente sul tasso di disoccupazione, salito dal 3,4% al 3,7% ufficialmente a causa di una forte flessione (-370mila) tra i lavoratori autonomi. Qualche analista offre invece un'altra spiegazione, imputando la discesa al maggior numero di americani che, dopo aver bruciato i risparmi durante il Covid, sono alla ricerca di un posto. Se così fosse, l'aumentata pressione dell'offerta dovrebbe frenare l'aumento dei salari, cresciuti in aprile del 4,3% annuo contro attese per un +4,4%.
In realtà, le aziende faticano ancora a trovare manodopera: il mese scorso le offerte di lavoro hanno di nuovo superato i 10 milioni.I mercati avranno le loro certezze, ma 18 anni dopo Greenspan, anche Powell ha il suo bel «conundrum» da mal di testa. E la stessa Fitch mantiene il rating Usa sotto osservazione con implicazioni negative.
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