La riforma della fiscalità dei tabacchi è in direttura d'arrivo. E all'orizzonte si prospettano nuovi rincari per i tabagisti. Il crollo del gettito registrato nel 2013, il primo dopo decenni di crescita ininterrotta, ha spinto il governo Renzi a correre ai ripari. Entro la fine di giugno il Consiglio dei ministri potrebbe inserire nella delega fiscale un decreto delegato per rimodulare le accise e aumentare la componente fissa o "specifica".
L'anno scorso il mancato introito per le casse dello Stato è stato di circa 600 milioni di euro. Risorse preziose che il premier Matteo Renzi non può permettersi di perdere ancora ma che, secondo alcuni studi, potrebbero invece aumentare nei prossimi anni se il sistema di tassazione rimarrà immutato. Il dossier è sul tavolo del ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan che di concerto con la collega alla Salute Beatrice Lorenzin sta cercando una soluzione. I due, però, non condividono gli stessi interessi. Le posizioni non sono univoche né tra le multinazionali del settore né tra gli orientamenti politici. Tanto che le esigenze dell’Erario e quelle del sistema sanitario non sono le uniche ad avere voce in capitolo.
In Italia la struttura della tassazione è largamente proporzionale al costo del pacchetto di sigarette. Se l’Iva è fissa al 22%, l’accisa ha una natura mista: una componente specifica, o fissa, indipendente dal prezzo, pari al 7,5% del totale del carico fiscale (aliquota base + Iva) ed una componente ad valorem, proporzionale appunto al prezzo di vendita e pari ad oltre il 92% del totale. Il braccio di ferro oggi è sostanzialmente tra chi, compreso il ministero della Salute, raccomanda un aumento significativo della componente fissa che avvicini il nostro Paese alla media Ue del 33% e chi invece è contrario a qualsiasi forma di cambiamento. La soluzione di compromesso sarebbe dunque quella di un effettivo aumento della parte fissa, ma ben al di sotto della media europea, con un rialzo cioè dal 7,5% al 10%. Anche se c’è chi ancora spinge fino al 15-20%.
Come evidenziano i dati delle entrate dello scorso anno, la guerra al ribasso dei prezzi delle bionde nata in tempi di crisi economica ha finito per penalizzare gli incassi dell’Erario. Recenti studi universitari, da ultimo quello di Paolo Liberati e Massimo Paradiso del Cefip (Università Roma Tre), sostengono infatti che, in un sistema largamente proporzionale come quello italiano, riducendo il prezzo di marche popolari i grandi produttori possono influenzare la classe di prezzo più richiesta e di conseguenza il gettito.
"Il crollo dei prezzi potrebbe essere considerato in apparenza un beneficio per i consumatori - sostengono i due studiosi - ma nasconde in realtà un doppio svantaggio: da un lato, fa dipendere il gettito dello Stato dai posizionamenti strategici dei produttori; dall’altro (e qui sta il motivo per cui il ministero della Sanità spinge per un cambiamento del sistema) contribuisce ad amplificare i danni per la salute, non scoraggiando i consumi ma anzi stimolandoli".- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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