Un'isola senza inflazione. Così la Svizzera resta un paradiso per pochi

Il carovita all'1,6% grazie alla politica sui cambi e al dirigismo sul controllo dei prezzi

Un'isola senza inflazione. Così la Svizzera resta un paradiso per pochi
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Ne è passata di inflazione sotto i ponti da quando, nel 2015, per un etto di prosciutto di Parma gli svizzeri pagavano il quintuplo dei consumatori dell'eurozona e per una Coca il 40% in più. Otto anni dopo, rispetto a quella terra disidratata dal carovita che è Eurolandia, il Paese dei cantoni è un'isola felix dove i prezzi al consumo sono scesi in luglio all'1,6% tendenziale. Un livello al di sotto del target del 2% fissato dalla Banca nazionale svizzera (Bns) che è stato raggiunto con appena cinque aggiustamenti dei tassi, l'ultimo dei quali ha portato il costo del denaro all'1,75% lo scorso 22 luglio.

Alla Bce ci sarebbe di che rosicare, visto che nove strette in un anno - con tassi schizzati al 4,25% - non sono ancora riuscite a domare, come preteso sopratutto dai falchi, le tensioni inflative. Ma, in realtà, non si può immaginare alcun derby euro-elvetico. Semplicemente perché non c'è partita: nell'azione di contrasto ai prezzi, Berna può far leva su punti di forza assenti nell'eurozona. Il primo è legato alla solidità del franco che beneficia dell'abolizione del cambio minimo franco-euro deciso nel gennaio 2015 dalla Bns per arginare le fiammate dell'inflazione. Il Crédit Suisse ha calcolato che un calo del 10% del tasso di cambio euro-franco riduce il carovita elvetico di mezzo punto percentuale. Un rapporto di causa-effetto evidente. La forza del franco, connaturata anche allo status di valuta di riserva, permette al Paese di limitare l'impatto inflativo che deriverebbe, in caso di debolezza dei rapporti di cambio, dagli oltre 300 miliardi di dollari di beni e di servizi importati ogni anno.

Un altro punto a favore nella lotta al caro-prezzi è la ridotta dipendenza energetica, frutto dello sfruttamento intensivo delle centrali idroelettriche e della parziale regolamentazione cui sono assoggettate le tariffe, fissate in anticipo e quindi meno condizionate dalle fluttuazioni internazionali. Ciò determina un peso ridotto nel paniere che misura le variazioni dei prezzi: un 5% in Svizzera contro il 7% negli Usa e il 10% nell'eurozona. Lo stesso vale per i generi alimentari, quelli che più incidono sul potere d'acquisto delle famiglie (quota di circa l'11% rispetto al 15% dell'Ue). L'elevato reddito pro capite, superiore a quello della media europea, attenua inoltre l'impatto dei rincari dei beni di prima necessità, poiché più sono le disponibilità economiche e minore è la percentuale di reddito da destinare alle spese alimentari.

Ultimo ma non meno importante, Berna tiene al guinzaglio l'inflazione anche attraverso un rigido controllo su alcuni beni e servizi. I prezzi calmierati sono il 30% circa del paniere (una percentuale che non ha riscontro in nessun Paese del Vecchio continente) e vanno a incidere su voci di spesa fra le più volatili come cibo, abitazioni e trasporti. Un dirigismo che, se applicato all'interno dell'eurozona, risulterebbe indigesto alla Bce. L'istituto guidato da Christine Lagarde ha infatti chiesto - e ottenuto - la rimozione da parte dei governi delle misure-tampone servite per alleviare lo choc energetico.

Ma più che la mano invisibile di Adam Smith, quella capace di auto-regolare il mercato, in questi tempi di inflazione rampante si è sentita la manina di chi ha soffiato sul fuoco dei prezzi senza che, per mesi, la Bce facesse un fiato. Consoliamoci col cioccolato. Svizzero.

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