Embargo al petrolio iraniano, paga l’Italia

In cassa integrazione i 400 dipendenti di una raffineria ad Ancona. Eni rischia di perdere 2 miliardi di dollari

Se Teheran piange, Roma non ride. L’embargo europeo sul petrolio è l’ultimo paradosso di uno scenario internazionale in cui l’Italia dei professori paga a caro prezzo il severo allineamento alle scelte atlantiste ed europee. L’entrata in vigore delle sanzioni Ue che dal primo luglio vietano l’acquisto di petrolio iraniano c’impongono di reperire altrove quel 13,4 per cento d’importazioni petrolifere garantiteci da Teheran. Il costo dell’operazione non è poca roba perché quel nostro 13,4% è, quantitativamente, assai più consistente, del 30% della Grecia o del 15% di Spagna, i due Paesi che ci precedono nelle importazioni europee di greggio iraniano.
I primi a saperlo sono i 400 dipendenti della raffineria Api di Falconara Marittima destinati alla cassa integrazione per la chiusura degli impianti. L’Api - uno dei grandi clienti di Teheran assieme a Erg, Saras e Ies di Mantova - oltre a dover spendere molto di più per rifornirsi deve anche adeguare una raffineria strutturata per la lavorazione del particolare tipo di petrolio bituminoso estratto dai pozzi persiani. L’Italia paga a caro prezzo anche la sua politica attendista. Mentre Grecia e Spagna hanno differenziato le forniture noi abbiamo continuato a far incetta di greggio iraniano. Le 548 mila tonnellate importate ad aprile rappresentano un incremento del 30 per cento rispetto alle quote di mercato. Vien da chiedersi come un governo Monti, apparentemente assai vigile in economia, non abbia raccomandato maggiore diversificazione in un settore tanto delicato. Sviste, attendismi e sudditanza rischiano di trasformarci nell’unica vittima delle sanzioni studiate per contenere il nucleare iraniano. Il caso più evidente sono i 2 miliardi di dollari vantati dall’Eni per lo sviluppo dei giacimenti di South Pars e Darquain e destinati, in teoria, a venir risarciti con partite di greggio iraniano. Le sanzioni Ue non si applicano alle partite destinate al pagamento di crediti pregressi, ma le autorità iraniane potrebbero cancellare il debito per rappresaglia. Mentre l’Eni trema la Bp britannica può invece fregarsene delle sanzioni e continuare a sviluppare con gli iraniani di Naftiran Intertrade un progetto da 20 miliardi di dollari per lo sfruttamento del gas del Caspio. L’esenzione, concordata da Londra e Bruxelles con Washington, è motivata dalla valenza antirussa dell’operazione. «Le sanzioni – spiegano fonti del Congresso Usa - devono infliggere la massima sofferenza agli iraniani senza consentire alla Russia di tenere in ostaggio l'Europa orientale per le forniture energetiche».
L’embargo sui 600mila barili di greggio iraniano consumati quotidianamente dall’Europa rischia, per contro, d’avere conseguenze limitate. Nelle ultime settimane 24 delle 44 petroliere iraniane hanno cambiato nomi ed insegne e hanno sostituito la bandiera iraniana, maltese o cipriota con quelle della Tanzania o dell’isola di Tuvalu nel Pacifico. Per evitare il blocco dei contratti assicurativi, la ditta armatrice National Iran Tanker Company sta siglando nuove polizze con compagnie casalinghe o nipponiche. Il Giappone, non pago d’aver ottenuto da Washington una proroga sui tempi d’adesione all’embargo, si sta trasformando nel principale garante delle esportazioni petroliere iraniane. Grazie ad una nuova legge il governo di Tokyo manovra un fondo da 7,6 miliardi di dollari destinato ad assicurare i carichi di greggio di Teheran destinati ai propri porti. La paradossale sproporzione tra i danni imposti all’obbediente e allineata Italia di Monti e il resto del mondo non si fermano qui. Il Giappone è, assieme a Cina e India - i due Paesi che lo precedono nella lista dei principali consumatori di greggio iraniano - una delle 20 nazioni a cui l’America di Obama concede di continuare ad acquistare il petrolio degli ayatollah. Le partite di petrolio destinate all’Unione Europea prima dell’embargo hanno dunque almeno altri 20 acquirenti pronti a subentrare negli acquisti. Così mentre l’Iran continuerà a farsi beffe delle sanzioni il Vecchio Continente acuirà gli svantaggi nei confronti dei paesi emergenti e continuerà a dibattersi nella crisi.
Da un punto di vista geopolitico, geo-energetico e geo-economico il giochino impostoci dall’amministrazione Obama è anche più perfido. L’America che ci chiede di rinunciare al petrolio iraniano ed alza il livello dello scontro con Teheran è infatti un’America pronta ormai ad affrontare senza danni un blocco di Hormuz. Le nuove tecnologie di trivellazioni e le scoperte di giacimenti petroliferi tra l’Alaska e la Patagonia hanno permesso a Washington di ridurre al 22 per cento la quota di greggio importata dall’Arabia Saudita e da altri cinque Paesi mediorientali.

Grazie ad un contenimento dei consumi d’energia e alle nuove tecniche di fratturazione idraulica che permettono lo sfruttamento di pozzi un tempo inaccessibili in Alaska, Texas e Nord Dakota, gli Usa hanno ridotto la dipendenza dal greggio straniero dal 60% del 2005 al 45% del 2011. E nuove tecnologie e nuove prospezioni promettono un futuro anche più roseo. Cosi mentre Europa ed Italia affondano, l’America di Obama si prepara a venderci il suo petrolio.

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