È nell'idea di «equivicinanza» con Israele e Palestina che sta l'ambiguità della politica mediorientale del governo Prodi. Lo hanno percepito gli ebrei italiani riuniti a congresso di fronte a un premier che ha tentato di accattivarsi l'uditorio indicando la stella di David come parte integrante delle radici culturali europee, quasi un contrappeso a quelle radici cristiane così insistentemente invocate dai cattolici italiani. Ma il richiamo alla equilibrata vicinanza verso le due nazioni assume un significato poco limpido se lo si legge nel quadro della tradizionale politica estera italiana e nel centrosinistra d'oggi che contiene in sé forze politiche che, sotto la maschera dell'anti-sionismo, professano atteggiamenti decisamente anti-israeliani.
Adottando la formula della «equivicinanza» il ministro degli Esteri Massimo D'Alema non ha fatto altro che riaffermare la continuità della politica del nuovo centrosinistra con quella dei passati governi variamente democristiani sostenuti da comunisti e socialisti. È stata la politica della lunga stagione della furbizia andreottiana, ancora oggi rivendicata come sapiente scelta di buon vicinato con dittatori e dittatorelli mediterranei e di convivenza con quel terrorismo di origine palestinese che si pensava assicurasse tranquillità alla penisola.
Non è dunque un caso che il governo Prodi stia cercando la discontinuità con il riconoscimento della democrazia israeliana praticato da Berlusconi e Fini il quale, proprio su ciò, ha maturato la sua definitiva lontananza dagli obbrobri razzisti fascisti e nazisti ed ha abbracciato la cultura occidentale. Ma la strada del prodismo anche in politica estera è tutt'altro che facile poiché deve fare i conti con i propri impulsi che non superano la banalità di parole d'ordine come «pace» e «due popoli e due Stati», e la pressione delle sinistre antagoniste da sempre impregnate di antiamericanismo e anti-israelismo.
Non è un caso che il leader dei comunisti italiani Oliviero Diliberto si sia affrettato a ribadire che la sua «affettuosa vicinanza alla comunità ebraica» si manifesta nell'auspicio che la crisi sia superata «solo attraverso la pacifica coesistenza di due Stati sovrani». Dimenticando però il piccolo particolare che in questo momento da una parte v'è uno Stato di diritto che pratica la democrazia e rispetta i diritti individuali, e dall'altra un governo controllato da terroristi che tuttora hanno nel programma la cancellazione dello Stato israeliano.
In questo senso la polemica sviluppata dalle comunità ebraiche contro il silenzio di Prodi sul giovane militare israeliano rapito da Hamas ha ragion d'essere perché proprio su questi nodi si misura il superamento delle banalità buoniste e pacifiste. Allo stesso modo sono da considerarsi escamotage verbali i richiami che i responsabili degli Esteri e gli altri esponenti di origine socialista hanno voluto fare ai meriti pacifici del craxismo. Quella politica, in quegli anni, con tutte le differenze di stile proprie delle diverse personalità che si sono alternate ai vertici, era pur sempre ispirata a un doppio binario che ignorava il vero discrimine tra Israele e Palestina.
Il punto dirimente non sta soltanto nel riconoscimento dello Stato di David (cosa ovvia dopo oltre cinquant'anni dalle decisioni dell'Onu e dalla realtà nazionale difesa con il sangue), e neppure nella riaffermazione della necessità di uno Stato palestinese convivente con quello ebraico, ma nella questione della democrazia, dei diritti individuali e della natura pacifica e di diritto delle istituzioni nazionali. È questo che fa la differenza anche nella politica estera italiana.
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