Ermete Trismegisto, il mistero della "Rivelazione" nascosta

Secondo il filologo francese la tradizione ermetica nacque con la crisi del razionalismo. E si propose come religione

Un fantasma si aggira tra il II e il III secolo d.C. nell'Impero romano, nel periodo che va da Traiano ad Alessandro Severo, nipote di Eliogabalo, il sacerdote del Dio Sole venerato a Emesa col nome di El Gabal, «la Potenza divina che risiede sulla Montagna». Sembra in apparenza, e forse lo è, l'apogeo della civiltà antica: gli eserciti di Roma trattengono i barbari ai confini dell'Impero; le città delle province orientali si ricoprono di scintillanti monumenti; a Roma, Adriano fonda l'Ateneo; ad Atene, Marco Aurelio organizza l'Università, dove quattro cattedre sono riservate alle quattro maggiori scuole filosofiche (Platone, Aristotele, la Stoa ed Epicuro). Ma è proprio in questi momenti che una civiltà entra in crisi: si stanca del proprio pensiero; o forse, proprio del pensiero.

È la tesi di padre André-Jean Festugière, superbo editore, insieme a Nock, del Corpus Hermeticum, e autore del poderoso La révélation d'Hermès Trismégiste, di cui esce ora, per Mimesis, a cura di Moreno Neri, il quarto volume della traduzione italiana (Il dio ignoto e la gnosi, pagg. 542, euro 32). Secondo Festugière, sul piano filosofico il razionalismo si era autodivorato, offrendo il malinconico spettacolo di una logomachia fine a sé stessa: «si era stanchi delle parole», che erano troppe e contraddittorie, perché, come scriveva Luciano di Samosata, «o dobbiamo credere a tutti i filosofi, il che è ridicolo, o dobbiamo ugualmente diffidarne». Soprattutto, «non c'era nulla che potesse riempire il vuoto delle anime», o che potesse dare all'uomo l'illusione di far parte «di una realtà superiore, identica al divino», come scriveva Plotino. E in effetti, «ermetismo e gnosi hanno rappresentato, nell'epoca antica, l'alternativa ai due pilastri della cultura occidentale, cioè l'aristotelismo e la rivelazione biblica», osserva nella sua ricca postfazione Marino Neri.

Ma chi era, davvero, Ermete Trismegisto? Ermete è il frutto dell'interpretazione greca del dio egizio Thot, il «signore della conoscenza» nel mito dell'Occhio del Sole: i Greci, appunto, diedero il nome di Hermes - il messaggero degli dèi, il divino psicopompo che accompagna le anime dei morti nel regno dell'invisibile - a Thot, mentre Trismegisto è derivato dall'epiteto egiziano «grande, grande, grande» di cui, già intorno alla metà del II secolo a.C., esisteva una trasposizione in greco, come si legge su un ostrakon oracolare di Saqqâra: «Ciò che mi fu detto dal grandissimo e grandissimo dio grande Ermete». Secondo la Suda, incantevole lessico bizantino non privo di bizzarrie, «Ermete Trismegisto era un sapiente egizio fiorito prima del Faraone. Fu chiamato Trismegisto perché diceva che nella Trinità c'è una sola natura divina». Le origini dell'ermetismo, infatti, sono oscure, dibattute e, naturalmente, molto misteriose, tra Bramani, Magi di Persia, Giudei, Egizi e Greci e le parole della summa del pensiero ermetico, l'altrettanto misterioso Corpus Hermeticum, che disvela il desiderio di conoscenza dell'uomo («Voglio apprendere le cose che sono, intuirne la natura e conoscere Dio»), tra visioni infinite, luci gioiose, contemplazioni di sé, smarrimenti di coscienza e vere e proprie estasi di bellezza.

La rivelazione, naturalmente, non è per tutti - e non a caso, come scriveva Stobeo, «Ermete incise quello che aveva conosciuto e, dopo averlo inciso, lo nascose» - ma solo per chi la ricerca e si riconosce come «essere di vita e luce». La gnósis, la vera «conoscenza», è acquisire la consapevolezza che l'uomo «che abita sulla terra» può, se vuole, essere un «dio mortale». Queste oscure, enigmatiche intuizioni non convincevano Festugière, che considerava, non a torto, spesso vaghe e contraddittorie le pretese religiose degli autori ermetici, ma sopravvivono e sono nascoste pressoché ovunque, come raccontava benissimo Paolo Scarpi nella sua introduzione a La rivelazione segreta di Ermete Trismegisto uscita per la Fondazione Valla.

Il viaggio di Ermete, poi, è misterioso come le sue parole: nel 1453, la caduta di Costantinopoli conduce studiosi e mistici bizantini in Italia, oltre a portare un numero imprecisato di manoscritti greci. Nel 1462, Marsilio Ficino aveva appena iniziato a tradurre Platone quando Cosimo de Medici lo costrinse a fermarsi per tradurre in latino l'opera del «primo autore della teologia». Nel 1614, in Germania appare la Fama fraternitatis dell'«ordine lodevole della Croce di Rosa», che conteneva una critica nei riguardi della - peraltro sempre attuale - degradazione spirituale dell'Europa, insieme ad una profezia che annunciava una possibile redenzione mediante un'imprecisata scienza spirituale universale. Due anni più tardi, vedeva la luce una sorta di romanzo barocco iniziatico, Le nozze chimiche di Christian Rosenkreutz, che descriveva sette giorni della vita dell'omonimo protagonista: il matrimonio, la decapitazione, la resurrezione, ma anche l'apparizione di una splendida donna, «con i capelli lunghi, folti, ondulati che scendevano in dolce disordine e la fluttuante veste blu costellata di stelle d'oro», che ricorda molto quella con cui Iside, con il suo «luminoso chiarore», appariva a Lucio nelle Metamorfosi di Apuleio, romanzo misterico per eccellenza. Ma sono moltissimi i segni di Ermete: dal mosaico di Giovanni di Stefano nel Duomo di Siena alla Madonna Alchimistica di Reims, dal Penseroso di Milton, che contemplava la luce insieme ad Ermete «tre volte grande» e apriva il terzo libro del Paradiso perduto con un inno alla luce dal probabilissimo sfondo ermetico, fino a Giordano Bruno e Isaac Newton. Nonostante l'«attentato» di Isaac Casaubon, nei secoli successivi l'ermetismo è sopravvissuto anche e soprattutto grazie ai movimenti teosofici e all'occultismo, oltre ad essere alla base di società segrete come la Massoneria.

Perché la grande intuizione dell'ermetismo,

forse, è proprio l'idea della misteriosa possibilità di un'intuizione: in fin dei conti, come diceva «la segreta nutrice che sa la vita e la morte» al Paolo Tarsis dannunziano: «Figlio, non v'è dio se non sei tu quello».

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