Arresti di massa in Cina Vietato protestare per le case espropriate

«Tre anni fa, grazie ai diritti d'autore avevo acquistato un'abitazione al condominio Huaxiang nel quartiere Fengtai a Pechino. A luglio ho ricevuto una notifica formale per la demolizione forzata della mia casa e di quella di altre trentanove famiglie, motivato da un progetto di ingegneria per il prolungamento di via Wanshou. Due giorni dopo, all'alba mentre dormivamo, le mura di cinta del condominio sono state improvvisamente rase al suolo». Così lo scrittore cinese Yan Lianke racconta in una lettera indirizzata al Presidente e al premier cinese la demolizione forzata della propria casa. Quel dramma non è un singolare imprevisto. E neppure una sventura eccezionale. Per i cinesi è solo la consuetudine di una società dove i diritti individuali non valgono nulla e l'arbitro delle autorità può tutto. Le retate e gli arresti con cui ieri è stata fatta piazza pulita delle migliaia di disgraziati scesi a Pechino per protestare contro la requisizione forzata delle loro abitazioni ne sono la dimostrazione più eloquente.
I «postulanti», come vengono chiamati con un termine vagamente spregiativo gli espropriati delle campagne, avevano scelto la giornata dei diritti umani per convergere sulla capitale e appellarsi all'autorità del Partito e dello Stato centrale. La buona fede e la convinzione di poter vedere riconosciuti i propri diritti, si sono rivelate pie illusioni. In poche ore gli occupanti dei circa 60 pullman partiti dalla provincia dello Shenzhen e riunitisi davanti alla stazione ferroviaria nella zona meridionale di Pechino si sono ritrovati deportati a Jiujingzhuang, un centro «segreto» di detenzione nei dintorni della capitale. Da lì alcuni sono stati trasferiti in un campo di lavoro, altri sono stati rilasciati dopo alcune ore di controlli.
Gli arresti di massa di ieri, come la recente vicenda dei proprietari della casetta distrutta per far posto al tracciato di una nuova autostrada, sono solo la punta di un'iceberg dalle dimensioni sconosciute. Un iceberg che il partito e i gerarchi locali chiamano marcia verso il progresso. Nelle montagne isolate della provincia del Guizhou, ad esempio, è partita la cosiddetta «offensiva finale» contro la miseria che prevede la deportazione - da qui al 2020 - di oltre due milioni di persone. Distruzioni, deportazioni e arbitrii esercitati nel nome del progresso non cambiano però l'immagine di un paese dove la transizione dal «comunismo per tutti» al capitalismo riservato ad una ristretta cerchia di oligarchi di partito ha innescato una delle più aspre sperequazioni sociali del pianeta. Una sperequazione che colpisce in primo luogo gli abitanti delle provincie e innesca ogni anno almeno 150mila rivolte mettendo a repentaglio la capacità di sopravvivenza del colosso giallo. Per capire la portata e il livello di questa disuguaglianza sociale basta considerare le differenze tra le entrate chi vive in città e di chi è rimasto in campagna. Negli ultimi trent'anni il reddito annuo a disposizione delle famiglie delle metropoli ha superato i 19mila dollari. I contadini delle zone rurali continuano a vivere con non più di 5mila dollari all'anno. Questo quadro di enorme sperequazione è confermato dall'impennata dell'indice di Gini, il coefficiente usato internazionalmente per misurare la distribuzione del benessere nella società.

Secondo le recenti stime dell' Università di Finanza ed Economia di Chengdu l'indice sarebbe passato dal già allarmante livello del 0,43 del 2005 a quella attuale del 0,61. In base a questi dati il tasso di diseguaglianza sociale della Cina sarebbe dunque uno dei primi cinque del pianeta. Un risultato raggiunto dopo 63 anni d'ininterrotto e assoluto potere comunista.

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