Con le milizie dell’ISIS (lo Stato Islamico dell’Irak e del Levante) che ormai controllano non solo Tikrit e il Triangolo sunnita, ma anche Mosul, e che nelle ultime ore, dopo aver preso Tal Afar in prossimità del confine siriano, si trovano ormai a meno di cento chilometri da Baghdad, la situazione irakena appare non solo completamente fuori controllo, ma anche gravida di pesanti rischi per il futuro. E questo non solo perché l’esercito regolare fedele al governo di Al Maliki non appare in grado, al momento, di lanciare una contro-offensiva efficace, o anche solo di resistere all’avanzata dei jihadisti, che stanno imponendo con la forza la forma più restrittiva di legge islamica in tutti i territori via via conquistati. La crisi irakena rischia infatti di diventare il detonatore che potrebbe far esplodere un conflitto regionale di proporzioni devastanti, tale da coinvolgere tutto il Medio Oriente. E questo perché, in primo luogo, l’ISIS opera trasversalmente tra Irak e Siria, ovvero coede i jihadisti irakeni con i gruppi di ispirazione salafita che rappresentano una delle principali forze in rivolta contro il regime di Assad, cosa che crea una situazione paradossale. Infatti Washington e le principali Cancellerie occidentali si sono sempre pronunciate, sino ad oggi, a favore delle forze che, in Siria, combattono contro il regime di Damasco; un appoggio per molti versi acritico, che poco o nulla ha distinto fra gruppi di opposizione “laica” – o comunque non riconducibili alla galassia del radicalismo islamico – e jihadisti salafiti, per altro finanziati ed armati dalle petro-monarchie del Golfo, Arabia Saudita e Qatar in testa. Di qui il paradosso di un Occidente che, in Siria sta, di fatto, favorendo le stesse forze di cui cerca di frenare l’affermazione nel limitrofo Irak.
Secondo fattore di criticità il degenerare del conflitto, storico ed endemico, fra Sciiti e Sunniti. Un rischio da tempo paventato da Washington, che nei mesi scorsi aveva inutilmente speso molte energie diplomatiche nel tentare di convincere lo sciita Al Maliki ad aprire maggiormente le stanze del nuovo potere irakeno alla minoranza sunnita, sperando con ciò di depotenziare la minaccia jihadista. La chiusura del capo dl Governo di Baghdad ha, però, favorito il dilagare del malcontento nelle province sunnite, divenute ormai fertile terreno di coltura per la propaganda dell’ISIS. Nel campo sciita, il Grande Ayatollah Al Sistani – suprema autorità spirituale dello sciismo irakeno, fino ad oggi noto per la sua moderazione – ha lanciato, nei giorni scorsi, un appello a tutti i fedeli perché impugnino le armi contro la minaccia dei jihadisti sunniti. Di fatto, siamo alla Fitna, alla, storica e cronica, guerra di religione fra sciiti e sunniti. Fitna che, per sua natura, non conosce confini; infatti l’Iran starebbe già mobilitando le sue truppe ai confini, in parte per un sostegno ai fratelli sciiti, in parte perché Tehran non può certo tollerare la nascita tra Irak e Siria di un “Califfato Islamico” guidato dai radicali salafiti. E alla mobilitazione degli iraniani, non può non corrispondere, per ragioni speculari, in campo avverso quella dei sauditi.
Infine i curdi, che con i loro peshmerga – guidati da Jafaar Mustafa, rocambolescamente sfuggito ad un attentato - hanno strappato armi alla mano la città settentrionale di Kirkuk alle milizie del’ISIS. Un successo che, tuttavia, aumenta le preoccupazioni ad Ankara, dove si teme da sempre il sorgere in Irak di uno Stato curdo indipendente, che diverrebbe polo d’attrazione irresistibile per i curdi delle province turche, con i quali, negli ultimi mesi il governo di Erdogan aveva cercato, e in parte trovato, un faticoso accordo.
A fronte di questa situazione molte sono le critiche che vengono rivolte all’Amministrazione Obama sia per il ritiro delle truppe dall’Irak, sia per l’incertezza e l’ambiguità con cui sembra reagire in queste ore. La destra Repubblicana è all’attacco al Congresso e nell’intero paese, e in molti stanno paragonando il frettoloso ritiro dei “consiglieri militari” statunitensi dalla base irakena di Balad alla fuga da Saigon mentre i Viet irrompevano nella Capitale Sud Vietnamita. E quello che è stato considerato uno dei principali ideologi della stagione di George W. Bush, il neocon Robert Kagan ha sostenuto – in un ampio e complesso saggio, ripreso in Italia da “Il Foglio” con il titolo “Il Paese che salvò il mondo, e adesso lo sta lasciando solo” – che Obama starebbe guidando gli States verso un progressivo disimpegno dagli scenari internazionali, riportando l’America ad occuparsi sempre più soltanto dei propri interessi interni, e rinunciando ad ogni volontà di intervento e di egemonia globale.
Non concorda, però, un altro grande analista politico statunitense, Edward Luttwak che – in un’intervista rilasciata a Daniele Lazzeri per “Il Nodo di Gordio” – ha sostenuto che Kagan fa mera polemica politica e che “il 90% della politica americana nei paesi musulmani” è condiviso da tutti, o quasi, i cittadini statunitensi. “Abbiamo provato – dice, con l’usuale schiettezza, Luttwak – ma, in questa fase della loro storia, gli islamici preferiscono l’oscurantismo al progresso, quindi rifiutano tutto quello che viene dall’America, sia la democrazia che lo sviluppo. A questo punto non ci resta che abbandonare quei paesi, e limitarsi a far fuori i terroristi da lontano.” E, a proposito delle accuse a Washington di aver scientemente voluto o comunque permesso la destabilizzazione del Maghreb e del Medio Oriente, ha aggiunto, con ironia:” Questa è la nuova versione geopolitica dell’antisemitismo. La colpa è sempre di qualcun altro, di forze occulte, degli ebrei ieri, degli Americani oggi.
In realtà quanto è accaduto ieri in Egitto e Libia e sta accadendo oggi in Irak è il portato dei fallimenti di quei regimi, di quelle élite e di quei popoli, tutti in certo qual modo “sodomizzati” dalle loro culture tribali o, comunque, anti-democratiche”.Andrea Marcigliano, senior fellow del think tank "Il Nodo di Gordio"
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