L'Irak dieci anni dopo: una beffa

L'Irak dieci anni dopo: una beffa

L'han pagata gli americani, ma a guadagnarci sono turchi ed iraniani. I primi incassano, i secondi decidono. Dieci anni dopo la guerra in Iraq gli americani fanno i conti con gli amari bilanci di un'avventura rivelatasi - nonostante l'abbattimento di Saddam Hussein - assai avara di risultati sia per la democrazia, sia per chi sperava di esportarla. I conti son presto fatti. Per stabilizzare il Paese gli Stati Uniti c'han messo sette anni lasciando sul terreno più di 4400 soldati e spendendo, ad oggi, circa 812 miliardi di dollari. Conteggio tutt'altro che definitivo. I reduci continuano a morire e così il costo economico, se si aggiungono le spese di assistenza alle famiglie di caduti, feriti e mutilati rischia di superare i 3700 miliardi. Un bilancio astronomico per un'impresa destinata, secondo le stime del 2003, a costare solo 60 miliardi e a garantire, oltre alla nascita della democrazia, anche una solida influenza americana su tutto il Medio Oriente. Con il senno di poi incassano invece l'Iran, uno dei peggiori nemici dell'America, e la Turchia ovvero l'alleato che nel marzo 2003 bloccò il passaggio dei soldati americani pronti ad invadere il nord dell'Iraq.
Il paradosso iraniano è quello più devastante dal punto di vista politico e militare. Togliendo di mezzo Saddam, il peggior nemico di Teheran, l'America ha garantito la nascita di quell'asse sciita che consente alla Repubblica Islamica di esercitare la propria influenza su Iraq, Siria e Libano e minacciare i confini settentrionali d'Israele. Lo stesso premier iracheno Nouri al-Maliki , un alleato a cui Washington fornisce armi e caccia F16, viene considerato oggi molto più vicino a Teheran che non agli Stati Uniti. La cartina di tornasole di questo paradosso è la crisi siriana. Il generale americano James Mattis, comandante di Centcom, ha spiegato al Congresso che la caduta del regime di Damasco rappresenterebbe «la più grande disfatta strategica dell'Iran degli ultimi 25 anni». Eppure uno dei principali garanti della sopravvivenza di Bashar è proprio l'«alleato» Maliki sospettato di garantire - d'intesa con Teheran - il passaggio delle armi usate dall'esercito siriano per schiacciare i ribelli appoggiati da Washington.
Neppure il fronte turco è avaro di paradossi. Fino a dieci anni fa il nord Iraq, ovvero il Kurdistan iracheno, era per Ankara l'anticamera dell'inferno, il rifugio-santuario delle formazioni terroriste curde considerate il principale ostacolo alla stabilità. Oggi quella stessa regione è diventata il nuovo Eldorado. Sfruttando la rivalità tra il governo di Bagdad e i capi curdi di Erbil e Suleimaniya, la Turchia ha trasformato il nord Iraq in una sorta di possedimento extraterritoriale. Da lì arriva il greggio dei pozzi di Kirkuk che i curdi ben volentieri sottraggono al controllo di Bagdad. Lì vendono e investono le ditte turche, alimentando il giro d'affari per oltre 8,3 miliardi di euro che fa dell'Iraq il secondo mercato per le esportazioni turche dopo la Germania. Basta un giro per Erbil, la capitale del Kurdistan iracheno, per capire che la vera manna sono le costruzioni. Il ritorno di centinaia di migliaia di curdi costretti all'esilio negli anni di Saddam e i proventi del petrolio garantiscono ai turchi proventi annui per due miliardi e mezzo di euro. Grazie ad un polmone iracheno capace di assorbire qualsiasi genere di prodotti l'economia di Ankara, asfittica fino al 2003, ha conosciuto un vero boom.

E proprio grazie a quel boom il premier turco Recep Tayyip Erdogan è oggi un protagonista del grande risiko del geopolitica mediorientale ed un concorrente di Washington. Un concorrente di cui però l'America non può far a meno. Soprattutto se vuole continuare a contrapporsi all'Iran e a mantenere un minimo d'influenza su Bagdad.

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