Belluomo, da ostaggio a esodato: "Ora è finita, ma a 64 anni cerco lavoro"

Mario Belluomo parla al Giornale. La telefonata poco dopo la liberazione e il pasticcio: "Da ore aspetto che venga un diplomatico italiano"

Arrivato all'aeroporto di Ciampino Mario Belluomo, l'ingegnere catanese rapito in Siria
Arrivato all'aeroporto di Ciampino Mario Belluomo, l'ingegnere catanese rapito in Siria

«Pronto è il ministero degli esteri di Damasco le dobbiamo passare una persona». Il nostro telefono squilla alle 14.26. In quei minuti sullo schermo di RaiNews un lancio avverte «Rilascio Belluomo: Farnesina invita a riserbo e prudenza».

Un secondo dopo la voce dell'ingegnere, fresco di liberazione, risuona nella cornetta. «Sono qui a Damasco da questa mattina. Ieri mattina (domenica) mi hanno portato a Homs poco dopo mezzogiorno e sono rimasto nella sede del governo e della polizia. Stamattina (lunedì) invece sono arrivato qui a Damasco negli uffici del ministero degli Esteri. Ora aspetto che qualcuno dell'ambasciata italiana venga a prendermi. Fino a quando non arrivano non posso muovermi. I rapitori mi hanno portato via il passaporto e tutti i documenti. Sono un uomo senza identità. E ora mi dica cosa vuole sapere?».

Mi racconti come l'hanno catturata

«Noi normalmente risiedevamo in un hotel di Tartus, un città vicino al mare. Per andare all'acciaieria di Hmisho nella zona industriale di Latakia facevamo ogni giorno circa 150 chilometri. Di solito avevamo l'accortezza di tornare prima del tramonto, ma quel giorno abbiamo fatto tardi e ci siamo messi in strada solo verso le 5 e mezza della sera. Sulla strada normalmente ci sono dei posti di blocco dell'esercito governativo che controllano il traffico e gli autoveicoli. Per questo quando nel buio siamo stati fermati da un gruppo di uomini armati abbiamo pensato che si trattasse di militari governativi. Ci hanno fatto scendere dalla macchina e ci hanno portati con loro. Da quel momento siamo sempre rimasti chiusi in una stanza. L'unica distrazione era la colazione e la cena. Per un mese e mezzo non abbiamo fatto altro che dormire ed aspettare questa sospirata liberazione».

Come l'hanno trattata?

«Non ci hanno trattato male e non ci hanno mai toccato, ma è stata molto dura psicologicamente. C'illudevamo di tornare a casa dai nostri cari a Natale, invece è stata molto più lunga. In questo mese e mezzo la cosa più brutta è stata non avere notizie delle nostre famiglie».

E adesso li ha chiamati?

«Non ancora…preferisco avere un piede sull'aereo per l'Italia. Altrimenti si agitano».

Cosa le dicevano i suoi sequestratori?

«Ripetevano che la Siria non è un paese democratico e che non bisogna lavorare per il suo governo, ma non ci hanno mai minacciato».

Il momento più brutto?

«Il momento più brutto è stato quando ci hanno preso. Il mio turno era finito dovevo partire da lì a due giorni. Quella sera dovevo far le valige e mettermi in viaggio per l'Italia il giorno dopo. Sfortunatamente abbiamo fatto tardi. Quando ho visto quegli uomini armati in mezzo alla strada mi sono detto "ecco mi son fregato il ritorno”. Ma anche in quei momenti ho cercato di mantenere la calma. Quando ho visto che non ci toccavano mi sono tranquillizzato. L'unica angoscia era non riuscire a far sapere ai miei cari che stavo bene».

Ora come si sente?

«Sono un po' dimagrito diciamo che la pancia se ne è andata, ma sto molto meglio psicologicamente e spero di poter presto riabbracciare i miei familiari».

Come ha saputo che stavano per liberarla?

«Lo abbiamo saputo dai nostri sequestratori. Io non parlo l'arabo, ma uno dei due russi con cui sono stato preso è mezzo siriano. Sabato i nostri carcerieri gliel'hanno raccontato e lui mi ha subito spiegato che all'indomani (domenica, ndr) ci avrebbero liberati».

Com'è andata liberazione?

«Ci hanno incappucciati, messi in macchina e portati in un posto distante più o meno un'ora dalla nostra prigione. Lì ci aspettava l'intermediario. Quando siamo saliti in macchina con lui e abbiamo visto che gli uomini armati non ci seguivano abbiamo capito che la nostra prigionia era veramente finita. Anche l'intermediario ci ha fatto subito capire che non c'erano più problemi e ci ha portato nella sede del governo e della polizia di Homs».

Il posto dove la tenevano prigioniero era sicuro?

«Da quel punto di vista non era proprio una situazione allegra. Ogni tanto io e i miei due compagni sentivamo esplosioni, spari, boati di bombe che cadevano. Ci guardavamo e ci dicevamo speriamo non ci arrivi niente addosso».

La prima cosa che vuole fare quando arriva in Italia?

«Cercarmi un nuovo lavoro…».

Solo quello?

«È la cosa essenziale. Chi non lavora non mangia. Io ho 64 anni, ma non posso permettermi di riposare».

Perché?

«Perché per la pensione mi mancano quattro anni di contributi».

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