Da quell’aula la rivoluzione esce battuta

Mubarak forse creperà in galera, ma la rivoluzione di certo non gli sopravvivrà. Anzi è già morta

Da quell’aula la rivoluzione esce battuta

Hosni Mubarak forse creperà in galera, ma la rivoluzione di certo non gli sopravvivrà. Anzi è già morta. Ha esalato l’ultimo respiro il 23 maggio in quel primo turno delle presidenziali che ha visto il passaggio al ballottaggio del candidato dei Fratelli Musulmani Mohammed Morsy e dell’ex premier Ahmed Shafiq, uomo simbolo del vecchio regime. Quel voto ha sancito il ritorno al passato. Un passato contraddistinto dalla contrapposizione tra il fondamentalismo di Morsy e l’ordine dei militari di cui Shafiq è espressione. In mezzo non c’è spazio per nessuno. Tra quei due vasi di ferro s’infrangono i sogni di democrazia, libero mercato e rispetto dei diritti umani germogliati in piazza Tahrir. Sogni evanescenti, privi di leader e di una concreta base politica. Sogni manovrati da un esercito deciso, 15 mesi fa, a bloccare un Faraone pronto a lasciare all’insulso figlio Gamal le chiavi del regno. Piani assecondati dai Fratelli Musulmani consapevoli che un’immediata discesa in piazza avrebbe spinto i militari a reagire con il pugno di ferro.
Nacque così, 15 mesi fa, l’accordo non scritto tra militari e fondamentalisti che lasciò piazza Tahrir alle folle senza potere e senza leader. Quell’alleanza contronatura è la madre del caos, l’inizio di una Rivoluzione nata morta. I Fratelli Musulmani, una volta conquistato il Parlamento, sono stati i primi a tradire la piazza archiviando la prospettiva di un islam democratico. La campagna presidenziale di Mohammed Morsy, un candidato che ha più volte ripetuto di considerare l’11 settembre una macchinazione americana, è stata un crescendo di appelli ai valori dell’Islam e della sharia. Un crescendo che ha terrorizzato cristiani copti e moderati spingendoli a cercar la protezione dei militari e a votare Ahmed Shafiq.
Mentre sul fronte politico lo scontro si radicalizza, cancellando qualsiasi ipotesi di apertura liberale, sul fronte dell’economia e della sicurezza l’Egitto è già al tracollo. Quindici mesi di scontri e disordini hanno azzerato il turismo, l’unica grande risorsa del Paese assieme alle entrate del Canale di Suez. La progressiva perdita di controllo del Sinai, in balia di terroristi e tribù beduine, e il susseguirsi di attentati hanno imposto la fine delle forniture di gas a Israele. Le allusioni islamiste a una possibile abrogazione del trattato di pace con lo Stato ebraico rischiano ora di mettere fine a quegli aiuti americani indispensabili per la sopravvivenza del Paese.
Così mentre i Fratelli Musulmani, egemoni in Parlamento, discutono di sharia e modelli islamici, la metà degli egiziani continua a sopravvivere con 50 euro al mese e il 40 per cento della produzione industriale continua ad uscire dagli stabilimenti dell’esercito garantendo la sopravvivenza di una casta in divisa. In questo clima un ballottaggio del 16 giugno segnato da irregolarità, sospetti e brogli rischia di trascinare generali e islamisti allo scontro finale. A quel punto molti egiziani e molti occidentali dovranno forse chiedersi se il successore di Nasser e Sadat merita veramente di morire in galera.

È stato autoritario, illiberale e corrotto quanto loro, ma a differenza di quei rispettati ed elogiati predecessori ha garantito al Paese e al Medioriente 30 anni senza guerra. Forse solo per questo merita di morire in pace.

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