Sangue e bombe: nuove prove di guerra tra Siria e Turchia

Ora più che una guerra imminente sembra una pantomima. La notizia è sempre la stessa. Anche ieri una granata di mortaio lanciata dalla frontiera siriana ha colpito il villaggio turco di Akçakale innescando la rappresaglia dell'artiglieria di Ankara. Al quinto giorno di repliche la notizia incomincia però a suonare non solo monotona, ma anche sospetta. Per capirci qualcosa bisogna tornare a mercoledì quando il primo colpo di mortaio attribuito alle forze siriane esplode su Akçakale uccidendo due donne turche e le loro tre figlie. Quel giorno Ankara non si limita replicare a colpi di artiglieria, ma invoca l'appoggio della Nato appellandosi all'articolo 4 dell'Alleanza. Quasi contemporaneamente il premier Recep Tayyip Erdogan fa votare al parlamento una mozione che autorizza l'esercito ad intervenire sul territorio siriano per i prossimi dodici mesi. Grazie a quella prima granata fuori bersaglio, per cui Damasco si è peraltro scusata, Ankara pone le condizioni per un intervento armato oltre confine. Nonostante l'evidente minaccia rivolta a Damasco le granate di mortaio continuano però a colpire Akçakale. Perché la Siria continua a tirar la corda? A chi giova tutto ciò? Non certo a Damasco. Il regime di Bashar Assad ha già le sue belle gatte da pelare con i ribelli e non ha nessuna interesse a regalare ai turchi la scusa per giustificare un intervento sui propri territori.
Quei colpi sparati da una zona dove continuano gli scontri tra truppe governative e ribelli infiltratisi dalla frontiera turca sono dunque alquanto sospetti. Soprattutto nel contesto di una guerra civile combattuta a colpi di propaganda, massacri mai confermati e notizie create ad arte. Soprattutto in uno scenario in cui la Turchia è l'unica ad aver interesse a scatenare degli scontri di frontiera e a lanciare un intervento armato in territorio siriano. Da mesi Erdogan e il suo fedele ministro degli esteri Ahmet Davutoglu, principale ideologo di una politica d'egemonia regionale, invocano dalla Nato la creazione di «aree di sicurezza» ovvero di zone cuscinetto in territorio siriano dove garantire l'incolumità dei civili minacciati dall'esercito di Assad. Dietro l'eufemismo delle zone di sicurezza si nasconde un piano rivolto a favorire l'intervento in Siria dell'Alleanza Atlantica e l'imposizione di una no fly zone.
La vera preoccupazione di Erdogan non è però l'incolumità dei profughi siriani, bensì la minaccia curda. Sui territori abbandonati dall'esercito siriano, costretto a ripiegare di fronte alle offensive dei ribelli penetrati dalla Turchia, si sono insediate numerose formazioni curde del Pkk ovvero i peggiori nemici di Ankara. Per impedire che riprendano a lanciare attacchi in territorio turco contribuendo al crollo della sua popolarità Erdogan ha assoluta necessità di realizzare le «zone di sicurezza». La Nato gli ha già fatto capire di scordarselo. L'America dopo l'uccisione del proprio ambasciatore a Bengasi ha capito che scherzare con il fuoco dello jihadismo non è affatto salutare e sta rivedendo la politica siriana. Nei giorni scorsi Washington ha fatto chiaramente intendere ad Arabia Saudita e Qatar di smorzare l'appoggio alle forze ribelli.

Dunque la Turchia oltre a dover rinunciare, almeno nell'immediato, al cambio di regime che le consentirebbe di esercitare la propria egemonia su Damasco, rischia di dover fare i conti con una nuova infiltrazione curda sui propri territori. Per questo nell'ottica di Erdogan garantire una presenza del proprio esercito nelle zone siriane trasformate nei nuovi santuari del Pkk è diventato non solo urgente, ma indispensabile.

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