Strage a Kabul, la morte arriva in bici

Un giovanissimo terrorista suicida supera a tutta velocità i posti di blocco e uccide sei ragazzi

Strage a Kabul, la morte arriva in bici

Brandelli di carne. Pozze di sangue e fango. Minuscole infradito sparse tra il gruviera dell'asfalto e il pianto di quei lugubri fantasmi di donna celati sotto i burqa. Quel sangue, quei rimasugli d'adolescenza dilaniata appartenevano ai loro figli. Ragazzini usciti di casa per raccattare qualche dollaro vendendo cianfrusaglie o allungando i palmi verso i finestrini dei Suv blindati in corsa ai quattro angoli dell'incrocio. Un incrocio nel cuore del superprotetto quartiere di Wazir Akbar Khan. Una zona di Kabul dove le auto della vicina Cooperazione italiana incrociano i blindati dell'ambasciata statunitense e quelli di Camp Eggers, quartier generale degli istruttori militari dell'Alleanza Atlantica. Il «sancta sanctorum», insomma, della Nato a Kabul, il cuore blindato della presenza occidentale. Per violarlo è bastato un kamikaze in bicicletta. Chi l'ha visto superare i posti di blocco spingendo a testa bassa sui pedali di una bici giura che aveva solo 14 anni. A dar retta ai talebani ne aveva 28. Poco importa. Quel che conta è che ha violato quel santuario superprotetto uccidendo sei adolescenti e mutilandone una decina d'altri. Forse ha ripiegato sui ragazzini quando ha capito di non poter penetrare in nessuna di quelle basi e di non poter colpire i convogli blindati.

Il messaggio è ugualmente devastante. La nuova strage fa capire che undici anni dopo nulla è cambiato. Nonostante l'uccisione di Bin Laden, nonostante la morte di centinaia di soldati occidentali - tra cui 51 italiani - nonostante la pretesa di Obama di chiudere la missione Nato e riportare tutti a casa, l'Afghanistan resta un inferno. Un inferno in cui gli unici ad aver mano libera sono ancora i talebani e i kamikaze di Al Qaida. Undici anni fa due di loro si fecero saltare nel quartier generale dell'Alleanza del Nord uccidendo Ahmad Shah Massoud, il leggendario comandante che aveva sconfitto i russi e cercava di fermare il dilagare del terrore islamista. Fu solo il prologo. Due giorni dopo i kamikaze di Mohammed Atta si scagliarono contro le Torri Gemelle ed il Pentagono. Undici anni e decine di migliaia di morti dopo le cose non sembrano andar meglio. La nuova strage messa a segno mentre a poche centinaia di metri di distanza s'inaugurava una statua di Massoud e oltreoceano si chiudeva la convention democratica di Charlotte evidenzia uno dei più disastrosi fallimenti del presidente Obama. Nella campagna elettorale del 2008 l'Afghanistan era il suo cavallo di battaglia. Allora lo sfidante Obama prometteva un radicale cambio di strategia, un'offensiva fulminante capace di conquistare il cuore e la mente degli afghani. Ora invece suona la tromba della ritirata. Una ritirata destinata ad arrivare a compimento nel 2014 e a restituire, a giudicar dai risultati, l'Afghanistan ai talebani e al terrore fondamentalista. Tutto il resto son dettagli.

Certo si può discettare sui mandanti di una strage attribuita, come la gran parte di quelle messe a segno a Kabul, al famigerato gruppo qaidista guidato dal patriarca del terrore Jalaluddin Haqqani e da suo figlio Sinajuddin. Si può ipotizzare che la strage sia la risposta alla decisione statunitense d'inserirlo nella lista delle organizzazioni terroristiche. Ma cambia poco. Negli anni Ottanta Jalaluddin Haqqani combatteva i sovietici grazie all'appoggio dei servizi segreti pakistani che lo consideravano uno dei comandanti più fidati.

Oggi, nonostante l'alleanza con Al Qaida e le decine di attentati, tra cui quello del 13 settembre 2009 costato la vita a sei nostri soldati e la clamorosa beffa del successivo 30 dicembre quando un kamikaze del gruppo fece fuori 9 uomini della Cia, il clan Haqqani continua a colpire grazie all'aiuto dei servizi deviati del Pakistan. Lo stesso Paese in cui si nascondeva Bin Laden. Lo stesso presunto alleato con cui Obama ha scelto di non fare i conti.

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