Turchia, due morti in piazza Erdogan: non è una Primavera

Turchia, due morti in piazza Erdogan: non è una Primavera

Prima era il falò di una piazza. Ora quattro giorni dopo è un incendio inarrestabile. Arde da Istanbul ad Ankara, divampa da Ankara a Smirne. E in quel suo avanzare impetuoso accende decine di piazze, brucia le prime vite. Sull'asfalto di Ankara crolla un giovane fulminato da un colpo di pistola alla testa. Sulla circonvallazione di Istanbul resta il cadavere di un manifestante investito da un tassista furioso per i blocchi alla circolazione. Lo slogan più urlato dalla folla è: «Tayyp, dimettiti». Proprio vicino al suo ufficio la polizia ha caricato con i gas lacrimogeni. Ma il Sultano non ci fa caso. Lui fa le valige. Parte - come se nulla fosse - per il programmato viaggio di 4 giorni in Marocco, Algeria e Tunisia. Del resto quale sarà mai il problema? Proprio nessuno. Anzi. «Tutto va bene» - fa capire l'imperturbabile Erdogan. I dimostranti - a dar retta al premier - sono solo «un branco di delinquenti» con cui «prima o dopo si faranno i conti». Anche perché - spiega - la protesta è «organizzata da elementi estremisti e noi non concederemo nulla a chi vive fianco a fianco con il terrorismo».
A sentir lui il pericolo di una primavera turca, di una rivolta generalizzata simile a quella di due anni fa in Egitto, non esiste perché «la primavera – assicura - è già arrivata e sono loro a volerla trasformare in inverno». Anche il repentino crollo della Borsa, scesa del dieci per cento, e la caduta della lira, precipitata fino a toccare il minimo degli ultimi 16 mesi, sono soltanto bazzecole transitorie e passeggere. «Il mercato azionario - spiega ai giornalisti - è fatto così prima va su e poi va giù… non può essere sempre stabile». Mentre Erdogan saluta e se ne va qualcun altro, si preoccupa. Il primo a non condividere quel suo cinico distacco sembra essere il presidente Abdullah Gul. «La democrazia non consiste soltanto nelle elezioni....il messaggio inviatoci da chi ha buone intenzioni è stato recepito» - assicura il presidente. In quelle parole - sommessamente concilianti - qualcuno intravede le prime crepe di un potere pronto a dividersi sotto i colpi della protesta. Anche perché i tre travolgenti e consecutivi successi elettorali conseguiti dopo il 2002 sono da giorni l'argomento principe usato dal Sultano per giustificare l'inutilità di un dialogo con l'opposizione. In verità l'uscita di un Abdullah Gul - considerato da tutti una creatura e un fedelissimo del Sultano - sembra più semplicemente il tentativo di evitare un'imbarazzante marcia indietro allo strafottente e lapidario Erdogan. Un Erdogan non paragonabile politicamente, se non altro per la sua convinta fede nel valore del voto, agli ex amici Gheddafi e Mubarak, ma tanto simile a loro in quella sua incapacità di cogliere la portata della protesta. E forse proprio l'eccessiva fiducia del premier nelle proprie qualità, la sua incapacità di comprendere i rischi nascosti dietro la rabbia delle piazze e l'ostinata cocciuta negazione di un malessere dimostratosi in grado di alimentare una novantina fra manifestazioni e disordini in 96 ore fanno tremare i suoi fedelissimi. Il rischio per ora non è tanto quella di una rivolta generalizzata destinata a far crollare il sistema di potere, ma quello di una lacerazione profonda del Paese.

Una lacerazione in grado d'innescare uno scontro violento le masse laiche e kemaliste emerse dai fumi di piazza Taksim e quelle dell'Islam, più o meno moderato, allineato con il partito di Erdogan.
Uno scontro capace di seminare l'odio, risvegliare i malumori dei generali messi da parte ed attizzare i focolai della guerra civile.

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica