Sanremo - Complimenti Fabrizio Moro, lei è la rivelazione del Festival. Ha vinto Sanremo giovani e anche il premio della critica con il brano Pensa. Che cosa farà al ritorno da Sanremo?
«Tornerò nel seminterrato dell’Hotel Parco dei Principi di Roma. Faccio il facchino “extra”».
Extra?
«Vuol dire che mi assumono al mattino e mi licenziano alla sera, è una strana procedura contrattuale. Di solito lavoro 12 giorni al mese, alla domenica sono sempre lì».
A chi dedica la vittoria?
«La dedico a mio padre, con cui non ho mai avuto un rapporto vero. È un operaio calabrese, sono 50 anni che si sveglia alle 6 del mattino per lavorare».
Che cosa ha detto del suo brano?
«Quando sono partito per Sanremo, lui non l’aveva neanche ascoltato. Poi l’ha sentito in tivù e si è commosso».
Attenzione, c’è il pericolo retorica. Fabrizio Moro è la storia perfetta: ha 32 anni, nella vita ha inseguito una sola passione, la musica, e il suo mese tipo è fatto di 18 sere durante le quali da anni canta con la sua band nei locali romani. La sua visione della musica è stile «frangar non flectar», cioè mi spezzo ma non mi piego e pazienza se spesso poi ha dovuto rimettere insieme i cocci: «Ma ora non ho più paura». Qui a Sanremo è arrivato con un brano, Pensa, ispirato dalla fiction su Borsellino «perché, quando è stato ammazzato, io ero troppo piccolo e avevo altro per la testa».
Ma non è troppo opportunista una canzone contro la mafia al Festival di Sanremo?
«Il mio non è un attacco ai mafiosi, è solo un invito alla riflessione. Questa è una canzone dedicata a tutti i morti come Borsellino, Peppino Impastato, Ninni Cassarà, Rocco Chinnici. Io li ho scoperti grazie alla tv, ma poi ho fatto ricerche, ho letto libri e mi sono documentato».
Il testo della canzone è un urlo contro i clan, acceso e appassionato come quello che si legge nel libro Gomorra. Si sente una specie di Roberto Saviano del pop?
«Impossibile, mi manca la cultura. Io ho solo la terza media. Vengo da una famiglia di operai, il mio ideale di vita è quello di faticare per raggiungere l’obiettivo. Ho sempre avuto ammirazione per chi suda e poi vince: da ragazzetto sognavo di essere come Rocky Balboa».
Allora è salito in scena all’Ariston come fosse un ring.
«Macché, avevo una strizza pazzesca. Poi ho cantato, ho visto la reazione della platea e mi sono sentito come se avessi preso 30 e lode all’Università».
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