FACOLTÀ DI CONTESTARE

Nel 1967 a Trento in molti davano per cosa fatta l’istituzione della facoltà di Scienze forestali, al cui progetto lavoravano da tempo i più influenti politici locali, tutti dc, e i vertici dell’Università dedicata al Sacro Cuore di Gesù, ovvero la Cattolica di Milano. Ma non avevano fatto i conti con... i senesi.
Infatti, come ultima conseguenza delle serate trascorse da un gruppetto «coordinato» dal presidente della Provincia di Trento Bruno Kessler al casinò di Saint Vincent ai primi di settembre del 1961, il 4 luglio del 1967 arrivò il decreto del presidente della Repubblica che approvava lo statuto dell’Istituto superiore di Scienze sociali di Trento, autorizzato da una legge dell’anno precedente a proclamare «dottori in Sociologia». Insomma, veniva messa in funzione una grande incubatrice del Sessantotto, la facoltà che nell’immaginario collettivo del Paese sarà la culla della contestazione e di quanto ne seguì.
Gli anni che separano quelle chiacchierate valdostane da quella firma di Giuseppe Saragat vengono ricostruiti nel libro Sociologia a Trento (il Mulino, pagg. 232, euro 19) di Giovanni Agostini. Fra i due eventi, una lunga serie di decisioni, esitazioni, colpi a sorpresa, lettere, manovre di lobbing, tradimenti, ripensamenti, mobilitazioni, convergenze anomale e conflitti imprevisti raccontata con documentazione in buona parte inedita. Ma anche con riferimenti alle storie personali di Bruno Kessler e Flaminio Piccoli, i protagonisti di una vicenda i cui effetti hanno segnato in modo drammatico la storia del Paese. Una vicenda che comincia nella periferia arretrata e depressa governata dai democristiani orfani di De Gasperi, in bilico fra Moro e Fanfani perché, comprensibilmente, molto più degli altri dc italiani sentivano la mancanza del leader della Ricostruzione. E nella prima metà degli anni Sessanta ancora in bilico fra Kessler e Piccoli, avversari per l’egemonia sullo Scudocrociato trentino, ma alleati per l’obbiettivo di dare alla loro provincia una «fucina di modernizzazione».
Perché la ragione fondamentale che spinse i dc del «Sud del Nord», come Kessler chiamava la sua terra, a battersi con compattezza e accanimento per la realizzazione di un’idea nata al bar del casinò di Saint Vincent (al margine di un convegno sugli squilibri regionali prodotti dal boom economico) fu la convinzione che il Trentino, per «togliersi i panni della comunità povera», avesse bisogno di «strumenti inediti e sensibilità e professionalità nuove» capaci di accompagnarlo fuori dalla civiltà contadina senza che i suoi abitanti vivessero «le proprie tradizioni unicamente come un arroccamento difensivo».
Insomma, gli allievi di De Gasperi, persuasi che «governare non è asfaltare», vollero fortissimamente la facoltà di Sociologia, convinti che sarebbe stata il «congegno» più adatto a fornire quegli strumenti, che sarebbe stata la scuola della nuova classe dirigente della provincia. E alla fine di una lunga partita politica di rito tridentino (le prime e decisive «mani» si giocano nella Curia cittadina e nel Consiglio provinciale, poi in Parlamento), nacque dunque la prima, e per decenni unica, facoltà italiana di Sociologia.
Che non fu la forgia dei modernizzatori prudenti e lungimiranti che dovevano sostenere e orientare la crescita economica delle vallate della provincia; e neppure l’università dei catechisti tanto temuta da Pci e Psi. Bensì il luogo dove, per usare le parole di Giorgio Bocca, «si sarebbero dati appuntamento tutti gli utopisti, gli spostati e gli irrequieti del Paese, quasi fosse stato suonato un misterioso tam tam». Insomma, la facoltà dedicata alla «scienza inferma», come i crociani continuavano a definire la sociologia.
Ma torniamo alla partita in cui giocarono, come spiega il libro di Agostini, un ruolo rilevante i personaggi più diversi: politici e uomini di chiesa di vario orientamento, peso e spessore, boiardi di Stato, manager privati, baroni universitari, accademici emergenti... Molti dei quali erano protagonisti o comprimari in altre e importanti vicende; in quegli stessi anni il Parlamento era infatti alle prese con la riforma del sistema universitario.
Si va dagli economisti Paolo Sylos Labini, Siro Lombardini e Beniamino Andreatta (che all’inizio era contrario all’istituzione della facoltà dove poi avrebbe insegnato) passando per il sociologo Achille Ardigò, il gesuita Luigi Rosa (del Centro studi sociali di Milano) fino a Luciano Gallino (all’epoca direttore dell’ufficio studi della Olivetti), monsignor Carlo Colombo (strettissimo collaboratore di Giovanni Battista Montini, ancora per poco cardinale di Milano), Giorgio Braga (singolare caso di ex maggiore dell’artiglieria divenuto docente di Sociologia), Marcello Boldrini (il fanfaniano di ferro scelto per guidare l’Eni del drammatico dopo Mattei).
E ancora, Gianfranco Miglio, il futuro ideologo della Lega allora preside di Scienze politiche alla Cattolica, e Giovanni Sartori, che insegnava al «Cesare Alfieri» di Firenze e si batteva a fianco del più potente collega affinché alle facoltà di Scienze politiche venisse attribuita «autonomia assoluta rispetto alle facoltà di Giurisprudenza e a qualunque altra facoltà». I due docenti, ostili al progetto di Kessler, guidavano una lobby che a un certo punto sembrò avere partita vinta.
Si continua con Luigi Gui, ministro dc della Pubblica istruzione, a farsi ispiratore di un emendamento che aveva negato all’Istituto universitario di Trento il diritto di conferire lauree in Sociologia. E Luigi Berlinguer, che pragmaticamente (avendo recepito le istanze degli accademici comunisti) disancorò il Pci dall’iniziale contrarietà assoluta al progetto.
Poi, naturalmente, «Flam» Piccoli, futuro segretario nazionale della Dc, avversario di Kessler, ma d’accordo con lui sulla necessità di portare a Trento la facoltà. Fra l’altro, Piccoli riuscì a bloccare, con l’aiuto del capo dello Stato Antonio Segni, la nomina del «progressista» Bruno Vielmetti ad arcivescovo di Trento spianando la strada ad Alessandro Maria Gottardi, che in occasione della consegna delle prime lauree italiane in Sociologia avrebbe invocato «sul promettente Istituto trentino di Scienze sociali la benedizione di Dio».
E i politici non democristiani presenti nel Consiglio provinciale che nel 1962 votò e approvò la proposta di Kessler: come il liberale Umberto Corsini, subito favorevole, il comunista Sandro Canestrini, subito contrario e interprete fedele dell’originaria linea del Pci nazionale, il missino René Preve Ceccon, fin dall’inizio a fianco di Kessler, e la socialista Livia Battisti (figlia di Cesare), contraria al progetto in dissenso dai suoi colleghi di partito trentini, ma allineata alla posizione del Psi nazionale.
E infine i senesi. Che cosa c’entrano? Siamo all’inizio del 1966 e, dei grandi partiti, a ostacolare in Parlamento il progetto di Kessler restava solo il Psi.

Il «punto debole» era Tristano Codignola, eletto in Toscana, plenipotenziario socialista per l’istruzione nonché agguerrito sponsor (fino ad allora senza fortuna) della legge che doveva istituire la facoltà di Scienze bancarie di Siena, bloccata in commissione da un paio d’anni. Nella primavera del ’66 il socialista di Rovereto Giancarlo Tomazzoni, di cui Kessler si fidava, lo «avvicinò» proponendo lo scambio: voi votate per Trento e noi votiamo per Siena. Affare fatto.

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