IL FESTIVAL DEL GIÀ VISTO

Il flop di Sanremo è il flop dell’Italia che si guarda indietro. Fateci caso: c’è un filo sottile che lega la 58ª edizione del festival e i problemi del Paese. Entrambi sono sempre troppo simili a se stessi. Si ripetono, non cambiano mai. C’è ancora Pippo Baudo e c’è ancora l’emergenza rifiuti; c’è ancora Little Tony e c’è ancora l’inflazione; c’è ancora Toto Cutugno e c’è ancora il Sud da risollevare. Sembra che siamo sempre fermi allo stesso posto, che giriamo in tondo mentre il mondo corre in avanti. Gli altri sono già arrivati al Terzo Millennio, noi siamo immobili ad Amedeo Minghi. Sempre la solita musica.
E l’Italia allora si ribella. L’Italia non canta più. Volta le spalle al palco dell’Ariston perché ha voglia di cambiare. Di fronte al crollo dei dati di ascolto, Pippo Baudo perde la testa e se la prende con l’Auditel, che è un po’ come se James Bond si lamentasse perché qualcuno lo spia. Eppure va capito: lui, il nazional-popolare per eccellenza, che sui dati Auditel ha costruito una fortuna, non riesce più a interpretare ciò che accade. In fondo, guardandosi si trova sempre uguale. Ed è tragicamente vero: lui è sempre uguale. È il Paese, oltre lo specchio, che è cambiato. E non lo vuole più.
Dal festival delle canzoni a quello della politica, anche qui ogni tanto si ha la sensazione di assistere a uno spettacolo già visto. E invece gli italiani vogliono un’altra musica. Il capolavoro di Veltroni è che sta quasi riuscendo a far passare se stesso come l’uomo del rinnovamento. Lui, che è in politica dal 1975, lui che è già stato il vice-Prodi e segretario Ds, lui che è uno degli uomini di punta del centrosinistra che sta al governo, si presenta agli italiani come «cambiamento». Che è un po’ come se Peppino Di Capri s’iscrivesse al concorso voci nuove di Castrocaro.
In effetti, Veltroni ha la testa ancora rivolta all’indietro. Lo si capisce quando, in vena di ottimismo, promette un altro boom «come negli anni Sessanta», tirando fuori dalla naftalina e dagli archivi dei giornali il solito corredo di foto in bianconero: il Piper, il twist, la minigonna, Kennedy, Bandiera Gialla, la Cinquecento, Ursula Andress, Patty Pravo, i Beatles, i bikini e il maestro Manzi. Roba da farci uno speciale: conduce Gianni Minà.
Per dirla tutta, noi di questa mitologia degli anni Sessanta non ne possiamo più. Sono trent’anni che ci triturano i gameti con il Piper, Kennedy e il twist: basta, per cortesia. Risparmiateci. E poi l’Italia vuole cambiare musica, non solo al Festival.

Ha bisogno che al governo vada chi sa guardare il futuro, non il passato. Chi sa costruire il domani, non rimpiangere ieri. Del revival di Bandiera Gialla ne possiamo fare tranquillamente a meno. Anche perché ormai, a forza di sventolarla, quella bandiera è così scolorita da sembrare bianca.

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