Festival di Venezia, Crialese, un film-manifesto Dalla barca giù l'arte per far salire la politica

"Terraferma" ha immagini e momenti belli, ma prevale l’aspetto ideologico, con i buoni messi da una parte sola. Il regista:"Non volevo fare un film a tesi". Infatti ce n'è solo una

Festival di Venezia, Crialese, un film-manifesto 
Dalla barca giù l'arte per far salire la politica

Venezia - Con il primo film italiano in concorso, Terraferma di Emanuele Crialese, arrivano anche le prime polemiche. Si dà il caso che si esca dalla proiezione della pellicola, prodotta da Cattleya e da Rai Cinema (da mercoledì anche nelle sale), convinti che le leggi italiane considerino reato il salvataggio in mare dei migranti naufraghi. Un giorno infatti capita ai due pescatori protagonisti, Filippo (interpretato dall’attore-feticcio di Crialese, Filippo Pucillo scelto già in Respiro e Nuovomondo) e suo nonno Ernesto (Mimmo Cuticchio), di trovare in mare un gruppo di persone e di salvarle. Tornati sull’isola li nascondono nel garage e il giorno dopo il nuovo capitano della Guardia di Finanza (Claudia Santamaria) gli sequestra il peschereccio con l’accusa di «favoreggiamento all’immigrazione clandestina», aggiungendo anche di dire agli altri pescatori che «qua le cose sono cambiate». Ogni riferimento alla legge Bossi-Fini è puramente casuale...

Ma quando, durante la conferenza stampa, una giornalista fa notare che così si mistifica la realtà e che nessuna legge vieta il salvataggio di persone in mare, il regista dapprima passa la palla al co-sceneggiatore, Vittorio Moroni, che abbozza un’ambigua risposta («Il film non si occupa della legge precisa di quel momento ma dello stato d’animo che ne è scaturito nel Paese») per poi, innervosito, intervenire direttamente: «Guardi signora che abbiamo studiato molto per realizzare il film, s’informi. Ci sono stati dei casi di pescherecci sequestrati perché hanno salvato dei migranti con l’accusa di favoreggiamento all’immigrazione». Un’altra mezza verità perché questo è accaduto ma solo quando la magistratura riteneva che ci fosse una complicità con gli scafisti. Tanto che l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) da anni assegna il premio «Per Mare - Al coraggio di chi salva vite umane». Comunque poi, a parte, Crialese chiarisce che si può essere accusati di favoreggiamento solo «nel caso in cui si raccolgono in mare degli extracomunitari e poi non li si denuncia alla polizia».

E sì che il regista si è rivolto proprio a Laura Boldrini, la portavoce dell’UNHCR, per riuscire a rintracciare Timnit, l’unica donna tra i quattro superstiti di un naufragio di 75 persone, vista in foto sui giornali. Per Lei il ruolo della migrante africana che sull’isola partorirà il frutto di uno stupro delle carceri libiche aiutata da Giulietta (Donatella Finocchiaro) insieme al figlio Filippo e al suocero Ernesto. Tra di loro nasce una complicità e un’amicizia che sfocerà nel tentativo di portarla sulla «terraferma» perché intraprenda il viaggio verso il marito che si trova a Torino. Con un sogno di futuro migliore che è lo stesso di Giulietta impegnata a mettere su un Bed&breakfast per guadagnare un po’ di soldi.

Ad aiutarla c’è l’intraprendente Nino (Giuseppe Fiorello), il fratello del marito morto tre anni prima, che è il simbolo - negativo naturalmente - della modernità: non vuole più pescare al contrario dell’anziano padre, trasforma un peschereccio in barca per turisti con tanto di animazione e, in una riunione di pescatori allarmati («Ci hanno insegnato a salvare la gente e ora ci dicono di cambiare rotta»), si chiede perché si ostinino a «prendere su» i migranti visto che «la legge lo vieta, c’è la motovedetta e si fa una cattiva pubblicità all’isola». Gli risponde il padre, simbolo positivo del passato - quasi mitologico (lo vediamo in una grotta forgiare un’elica a mo’ di Vulcano) - che per lui esiste solo «la legge del mare».

Tra immagini bellissime (in questo Crialese è un maestro) e alcune intuizioni notevoli (la barca piena di gitanti che, come i migranti, si tuffano in mare, ma per fare il bagno) il film, che ha avuto un costo notevole (circa 8 milioni di euro) e una lunga gestazione terminata con notevoli aggiustamenti al montaggio, dimostra però

un forzato manicheismo e un evidente impianto a tesi - anche se negato dal regista - tra i soliti italiani buoni (i pescatori) e quelli cattivi (i poliziotti e affini). E così l’aspetto politico oscura quello artistico.

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