Fiabe metropolitane

di Vincenzo Pricolo

Su quella parte di Europa che una volta si chiamava logicamente Gallia Cisalpina e che ora è abitata da più Esposito e Lo Turco di quanti se ne trovino alle pendici del Vesuvio, si annunciava una bella mattina di primavera.
Qualche minuto prima delle sette, appena sveglio dopo un sonno stranamente ristoratore, l’ex milanese si alzò dal letto senza aspettare il suono della sveglia. Andò in bagno, dove si ricordò con fastidio che era prossimo alla cinquantina, e poi in cucina, dove si preparò il caffè, mangiò un paio di fette biscottate con la marmellata e, aprendo il frigorifero per prendere il latte, notò fra le tante foto calamitate una cartolina che si era mandato qualche anno prima da una vacanza e che gli sembrava di vedere lì per la prima volta.
CORSO LODI
Mentre aspettava che la napoletana e il fuoco facessero il loro dovere, si trovò a pensare «però corso Lodi non è male». Forse nel suo ultimo sogno vittima dell’ultimo reset era capitato da quelle parti, chissà. Ma da quel momento la sua mente restò lì. «Corso Lodi non è affatto male - ribadì il suo pensiero, lontano dal suo corpo che era impegnato nelle abituali faccende semiautomatiche -. Il tratto che va da porta Romana a piazzale Lodi è sempre un po’ troppo “divisorio”, mi dà l’impressione di separare più che unire, ma piazza Buozzi è un habitat complessivamente adatto alla razza umana, al contrario di piazzale Lodi, che fa capire bene la differenza che c’è fra una piazza e un piazzale. Il ponte sulla ferrovia trasmette sempre un senso di desolazione e fa venire voglia di allungare il passo ma il tratto successivo, fino all’incrocio Brenta-Bacchiglione, è ordinato e movimentato. E anche quello ancora un po’ più in giù, fino a piazzale Corvetto».
Un altro caffè, controllare il telefonino, un po’ di musica, alzare le tapparelle e aprire le finestre, un’occhiata allo specchio, «più passa il tempo più somiglio a mio nonno, come mi voleva bene», denti, doccia, barba, guardaroba...
Nell’appartamento dell’ex milanese, in una palazzina piantata nella brughiera lombarda a una quarantina di chilometri in linea d'aria dal Vittorio Emanuele a cavallo, gli altri abitanti si alzavano e si mettevano in movimento. Ma i saluti assonnati e le incombenze affrettate non disturbavano il suo pensiero dominante: «Quando ci sono stato l’ultima volta? Boh, qualche anno fa. Comunque, prima corso Lodi era peggio. Molto prima, naturalmente, era molto meglio. Quando c’erano i cantieri della metropolitana c’era un gran casino e i negozianti si lamentavano. Quando c’era il tram l’erba cresceva testarda lungo i binari. Ma forse è solo la nostalgia per la mia vita passata...».
MEZZO SECOLO
Più o meno alla stessa ora, in una città padana, bella come le altre ma delle altre molto più dotta, un altro ex milanese, amico del primo, si svegliava anche lui prima del suono della sveglia, faceva più o meno le stesse cose del primo e si trovava a ragionare più o meno sugli stessi pensieri: il mezzo secolo di vita è vicino, corso Lodi com’è come non è, dopo che tolsero i binari del 13 si parcheggiava sotto gli alberi fra le cacche dei cani, quel ristorante cinese dove si mangiava bene e si spendeva poco, l’angolo che gli piaceva di più, l’insegna di quella tipografia, il ponte che desolazione eccetera eccetera.
Il primo lo chiameremo Francesco e il secondo Roberto. Questi due avevano vissuto insieme in corso Lodi qualche anno importante della loro vita, diciamo da Tognoli a Formentini, diciamo anche da Liedholm a Tabarez. Erano molto amici, si pensavano sempre ma non si vedevano mai.
Roberto, nel silenzio della sua casa a qualche chilometro in linea d’aria dalle torri rimaste accoppiate per i casi della storia, decise di andare a Milano. Sul post-pendolino o come si chiama adesso che riuscì a prendere al volo sognò vecchie fidanzate piacevolmente e pericolosamente socievoli, compagni di banco morti da decenni che si lamentavano dei compiti in classe, Robespierre che scampava alla ghigliottina e si nascondeva a casa di Danton, che era lui, anche lui sopravvissuto chissà come al Terrore, gli ebrei che dicevano a Pilato, che era sempre lui, di condannare Barabba e di liberare quell’altro. Insomma, cose così.
Intanto anche Francesco in treno, il suo solito locale o regionale o come si chiama adesso, immerso negli afrori confliggenti di femmine più curate del solito e maschi incuranti come al solito. A un certo punto le prime note di Senza di te non ci sto più segnalarono l’arrivo di un sms. «Riun sltt, ci ved pom». La riunione è saltata, ci vediamo nel pomeriggio. E lui pensò: «Czz, ho lav x nnt..», ovvero «Cazzo, ho lavorato per niente. Vabbè, come se fosse la prima volta... Andrò a farmi un giro in corso Lodi».
ENTITÀ MALEFICA
In quello stesso momento, nella notte di New York, nella tarda mattinata di Dubay o nella sera di Singapore un’entità malefica alzò di scatto la testa e la girò aggrottando la fronte, come facciamo tutti quando udiamo un rumore indefinito, vicino o lontano che sia. Era, l’entità malefica intendo, Satana in persona. O forse un demonio del folklore italo-terronico degli ex voto o un Belzebù ebraico o islamico, o un dio sanguinario papua, tutu o azteco o un’anima de li mortacci tipo Attila, Hitler, Stalin, Saddam Hussein o Sciarra Colonna. E dopo un leggero sussulto, riportata la testa nella posizione originaria, sorrideva meditando «se vi becco vi porto all’inferno».
In treno Francesco pensava: «Un sabato sera di un’estate dei primi anni Sessanta, in quel film con la Spaak un Tognazzi troppo ottimista pregustava una gita domenicale con la sua bella decappottabile e ne prevedeva un tranquilla conclusione che faceva coincidere con l’avvistamento di porta Romana... Quel Tognazzi, padre quarantenne ricco e separato che voleva dedicare una giornata a suo figlio che stava in Versilia, all’inizio del film era a una festa e diceva ai suoi interlocutori qualcosa tipo “domattina parto presto, alle 10.30/11 passo la Cisa, ristorantino al Forte, poi vado a prendere mio figlio, andiamo in spiaggia, facciamo un po’ di castelli, facciamo un bel bagno...”. E chiudeva così: “... poi lo riporto alla base e alle 22 sono in corso Lodi”. Non immaginava che guai gli sarebbero capitati».
Il treno di Francesco: fermate intermedie, sali scendi ma più sali che scendi, piccoli incrementi di ritardo, niente controllori, facce stranamente familiari, giornali con titoloni che sospettava di aver già letto, voci fastidiose, lingue sconosciute, conversazioni allucinanti, confidenze imbarazzanti, suonerie lasciamo perdere...
PILLITTERI E ANIASI
In treno Roberto continuava a sognare. Pillitteri che si sporgeva dalla sua Milano da bere per insultare i tranvieri che erano già nel Duemila, Aniasi che firmava delibere barcamenandosi fra democristi e comunisti, due centravanti sudamericani che raccontavano felici storie d’amore con due cubiste furbe e toste che poi erano la mamma di Aldo Busi e una cugina del futuro papa Montini, Corso che prendeva in giro Herrera, Beppe Viola che alla Domenica sportiva che un Trapattoni allegro e astuto ma forse già juventino, gli inutili derby di metà anni Settanta con Calloni e Libera, un arcivescovo del Seicento che prendeva possesso della diocesi dopo essere entrato da porta Romana... Il suo treno, intanto, correva nella pianura. Francesco mandò un sms a Roberto: «Ciao, stamattina faccio un giro in corso Lodi. Più tardi ti chiamo». Dopo un po’, finalmente sveglio del tutto, Roberto voleva rispondere «Mi sono preso un giorno di libertà e sto venendo a Milano. Mangiamo insieme» e invece rispose «Fannullone. Io incasinatissimo, a più tardi».
Nel frattempo il terzo personaggio stava decidendo quale aspetto assumere per portare all’inferno i primi due: un automobilista, un netturbino, un poliziotto, un rapinatore...
Francesco scese dal treno, prese la metropolitana gialla fino a Porta Romana. Con la porta alle spalle e il sole davanti, camminava verso sudest sul marciapiede di sinistra; guardava i negozi, le facce dei passanti vagamente familiari come quelle dei pendolari, il traffico sfilacciato e irrazionale di metà mattina, le macchine, chissà perché quasi tutte non catalizzate, che rotolavano sul lastricato e a un certo punto in lontananza vide o gli sembrò di vedere il tram che gli veniva incontro. Ma si accorse subito che si era sbagliato. Chiamò Roberto: non raggiungibile. Proseguì con andatura di passeggiata fino al piazzale rotondo che una volta veniva attraversato dal 13, passò davanti all’involucro di quella che forse era stata la grande fabbrica più vicina al centro di Milano e guardò nella voragine di cielo urbano creata dallo scalo ferroviario. Richiamò Roberto: «Uè, sono in corso Lodi». E Roberto rispose: «E che ci fai?». Francesco: «Respiro aria di gioventù». Roberto: «Bravo, ti richiamo fra dieci minuti».
Roberto era appena emerso dal sottosuolo a Porta Romana e tornò subito giù.
IL VIZIO DEL FUMO
Per Francesco c’erano sempre i negozi, le facce, le macchine parcheggiate fra le due carreggiate. Dopo pochi minuti Roberto rispuntò fuori a Brenta e richiamò: «Allora, nostalgico, dove sei di preciso?» Francesco: «Ho passato il ponte, pensavo di passeggiare ancora un po’ e di mangiare dai calabresi che litigano sempre. Roberto: «Vabbè, ma quando ci vediamo?». Francesco: «Boh, che giorno sarà il 2 giugno? Se fosse venerdì o lunedì potrei venire a trovarti. Altrimenti più avanti, bisogna organizzare un weekend al mare. Male che vada, come al solito in agosto». Roberto: «Il 2 giugno è dopodomani e la scorsa estate non ci siamo visti neppure una volta. Sei peggio di me, meno male che ci sei. Salutami i calabroni, che adesso ho da fare». Francesco: «Ma non sei al lavoro, sento rumore di traffico». Roberto: «Sono sceso a comprare le sigarette». Francesco: «E per chi? Non fumi da trent’anni». Roberto: «Ho ripreso l’altroieri». Francesco: «Tutto bene?». Roberto: «Benissimo, respiro anch’io aria di gioventù». Francesco: «Ci vediamo prestissimo, promesso». Roberto: «Sì sì, ciao ciao».
«Ma come si fa a ricominciare a fumare dopo tanto tempo?», pensò Francesco. «Ma come si fa a vivere scollegati dal presente?», pensò Roberto.
IL PALAZZO D’ANGOLO
Affacciato a una finestra del palazzo che fa angolo con via Massarani c’era un tipo in maglietta che sembrava essersi appena alzato. Francesco scese dal marciapiede lì sotto e si preparò ad attraversare, Roberto era all’altezza di via Priula e allungò il passo verso l’incrocio con via Tagliamento. Francesco era ormai dall’altra parte all’incrocio con via Scrivia quando udì uno sparo e vide cadere una ragazza che stava uscendo da un negozio. Le si avvicinò, udì gente urlare e un altro sparo. Roberto udì i due spari e si mise a correre. Il terzo colpo di fucile era per Francesco, il quarto per un milanese di Marrakesh, il quinto per Roberto e andarono tutti a segno. Il tipo in maglietta si tuffò dalla finestra e cadde su una macchina facendo scattare l’antifurto.

In quel momento Francesco e Roberto furono percorsi da un fremito e si svegliarono, ciascuno nel proprio letto. Un’oretta più tardi un sms diceva: «Stanotte ho sognato che eravamo a Milano e ci ammazzavano». La risposta: «Anch’io. Per stare un po’ insieme dobbiamo fare lo stesso sogno. Che vita di merda».

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