Sergio Marchionne ha detto che la nuova Fiat si occuperà di auto, non di politica, e su questa base prenderà le decisioni. Ottima impostazione che conferma come l’Italia di oggi, nonostante difformi pareri nostalgici, abbia manager capaci di andare oltre il vecchio Paese, vitale ma condizionato da protezionismi e consociativismi. Naturalmente le vie nuove si intraprendono chiusi i conti con quelle vecchie. E se è vero che la Fiat, i suoi lavoratori, tecnici, molti dei manager, la stessa famiglia Agnelli hanno dato tanto all’Italia, non vanno scordati i crediti della nostra società nei confronti del gruppo torinese.
Se alcuni decenni fa l'Alfa Romeo si fosse accordata con la Nissan per fare uno stabilimento al Sud la nostra economia sarebbe oggi più internazionalizzata e il Mezzogiorno godrebbe di una più articolata presenza industriale. Se a metà degli anni Ottanta l’Alfa fosse stata venduta alla Ford invece che a Torino, oggi in Lombardia non si sarebbe dispersa una qualità produttiva di grande valore. Al di là di incentivi, investimenti, sostegni alla ricerca e altri provvedimenti spesso pienamente giustificati, la scelta della nazione di proteggere la Fiat ha determinato un costo da ripagare innanzi tutto con l’attenzione per chi a Torino ha lavorato e lavora. E c’è un altro debito che la compagnia torinese ha con la nostra società ed è la qualità delle relazioni industriali. Marchionne ha confessato di avere trovato, nell’azienda che ha preso in mano, queste relazioni in uno stato pietoso. È una lunga storia fatta di tentazioni di imporre subalternità ai lavoratori e di cedimenti al ribellismo, che vede la volontà di trattare (non riuscendovi) la Cisl come un sindacato giallo alla fine degli anni ’50. Preparando con tale scelta la rivolta anarcoide degli anni Settanta, interrotta da un accordo sul punto unico sulla scala mobile fatto dalla Confindustria di Gianni Agnelli che costrinse l'Italia a un’inflazione bestiale per un decennio. Una storia che vede una Confindustria di nuovo Fiat-centrica nel ’92-’93 rinunciare ad accordi sulla produttività, una Confindustria ritornata sotto guida Fiat dopo il 2004 non solo propiziare quella schifezzuola del governo Prodi ma, di stretta intesa con quel fantasma di Guglielmo Epifani, sabotare ogni accordo sui contratti legati alla produttività. Marchionne si lamenta perché i sindacati italiani non sono in grado, come quelli di Detroit, di trattare intese per lo sviluppo dell’impresa. Vi è in questa argomentazione una certa verità se per «sindacati italiani» si intende quel nucleo di adoratori della mistica dell’autunno caldo che sono i dirigenti dei metalmeccanici della Cgil, quelli della Fiom, e se ci si riferisce a un leader come Epifani incapace di intraprendere una qualsiasi battaglia per imporre un minimo senso di responsabilità alla sua organizzazione.
Marchionne ha torto se invece se la prende con quel sindacalismo italiano, a partire dalla Cisl che, contratto dopo contratto, accordo dopo accordo, sta portando i lavoratori a una nuova maturità.
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