Le Filippine impazzite per Pac-Man, il pugile-attore che sogna la politica

Manny ha fatto scappare da bordo ring una mamma con il suo bambino, la famiglia di Miguel Angel Cotto, l’uomo che stava devastando di pugni in quel momento. È stato l’unico attimo di ingloriosa fama della serata. «Arbitro interrompi questo massacro», ha urlato la donna prima di scappare. Però Manny, nella vita Emmanuel Dapidran Pacquiao, filippino che sembra un puffo, uomo di buon cuore, non ha sentito niente, ha continuato nel suo lavoraccio finché l’arbitro ha deciso che era ora di smetterla: 55 secondi dall’inizio della dodicesima ripresa. Cotto era già finito a terra due volte (3° e 4° round), ormai il suo viso era pieno di tagli e ferite, gonfiori, il potente sinistro di Pacquiao suonava come una campana a morto.
In quel momento nelle Filippine non c’era uomo, donna o bambino che non avesse occhi alla televisione e sui pugni di Manny, meravigliosa mitraglietta umana, soprannominato Pac-Man, l’eroe di grandi e piccini. L’uomo che abbassa il tasso di criminalità, perché neppure i delinquenti vogliono perdersi l’incantesimo di certi attimi. Evitano perfino il lavoro facile. Sì, Manny è un mago ipnotizzatore, un po’ per tutti. Il sindaco di Tatay, la cittadina colpita a settembre da una forte alluvione, ha addirittura sborsato 1500 dollari per pagare la diretta in pay per view ai suoi 2500 concittadini riuniti nella palestra comunale, sgranocchianti i biscotti forniti dagli aiuti del World Food Program.
Tifo guadagnato non solo per il gran cuore messo in ogni match sul ring. A settembre Manny ha interrotto gli allenamenti per correre in soccorso degli alluvionati, della famiglie colpite dal tifone: ha speso per tutti, ha perfino pagato il legno per le bare. È un milionario, il cuore non sarà d’oro, ma nemmeno di ferro. Negli ultimi tre incontri ha guadagnato, solo in borse, 50 milioni di dollari: 25 contro Oscar De La Hoya nell’incontro che lo ha incoronato re per il grande pubblico, 12 milioni quando ha demolito Ricky Hatton, l’inglese che pareva un bulldozer dei pugni, e infine altri 13 milioni l’altra notte a Las Vegas contro Miguel Cotto, portoricano dal pedigree nobile che, finora, non aveva mai perso.
Oggi Pacquiao, 30 anni, partito 15 kg fa da peso mosca (49 kg) e diventato campione mondiale dei welters Wbo (65,317 il peso prima del match), è un fenomeno sotto ogni latitudine: l’uomo che ha vinto sette mondiali in differenti categorie (due per sigle fasulle), come a nessuno è mai riuscito, il ragazzino che a 10 anni difese il fratello a suon di pugni da alcuni bulletti, il milionario uomo sandwich che pubblicizza detergenti e medicinali, cibo e telecomunicazioni, possiede un allevamento di galli da combattimento, una squadra di basket e una organizzazione pugilistica, ha fatto l’attore e il cantante che è l’altra passione sua, è stato il soggetto di due libri e un film, ha presentato un famoso show televisivo, tiene una rubrica su un popolare quotidiano delle Filippine, ci ha provato con la politica ma ha perso... ai punti, steso da Darlene Custorio, una donna che gli ha soffiato una poltrona nel consiglio comunale di General Santos City, la sua città.
La politica sta diventando una ragione di vita, come lo è stata la boxe. Sul ring Pacquiao è partito con tutti gli svantaggi di un pugile piccolo di taglia e di peso, d’accordo, un uomo senza paura, nato laddove si combatteva fra separatisti islamici e governo, ma difficilmente raffrontabile ai giganti del passato: i piccoli pesi hanno fatto storia, non sempre leggenda e nemmeno hanno raggiunto la popolarità dei grandi fighters, questione di feeling. Pacquiao ha sfruttato la nuova era, dove i pugili bravi e credibili sono davvero pochi, e la «dolce scienza» è paradiso per chi la sa coltivare. Ce l’ha fatta. Un uomo astuto, ma intenditore, come Bob Arum, l’avvocato ebreo di New York che ha gestito le grandi firme del pugilato, non ha dubbi: «Sono stato il promoter di Alì, Sugar Ray Leonard, Marvin Hagler. Però Manny è il miglior pugile che abbia mai visto». Strano, la storia è ricca di campioni che possono far cambiare idea.
Certo Pacquiao sa scalare le difficoltà della vita: scappò di casa a 14 anni per colpa di quella bestia di suo padre, che si cucinò e mangiò il cagnolino di Manny, per punirlo. Time lo ha inserito fra i primi 100 personaggi più popolari del 2009, un buon segnale per sfondare in politica: ha fondato il «People Champ’s Moviment», un partito che appoggia Gloria Arroyo, il presidente del Paese, non a caso la prima a congratularsi con l’altra «gloria» nazionale, dopo il successo mondiale.
Ieri a Manila e dintorni sembrava festa nazionale: tutto nelle mani di un uomo.

Manny ha raccontato: «Sul ring mi sono sentito una tigre». Quel che serve in politica. Forse un giorno gli metteranno anche il Paese in mano. Ma per ora Pac-Man resta l’uomo dai pugni d’oro che spedisce i criminali davanti alla Tv, anziché a rubare nelle case.

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