Filosofia d’artista: "Non esisto, dunque sono"

La vita di Andy Warhol è stata un grande reality show. In lui la genialità divenne norma e ripetizione ossessiva: fino a essere moda. A Parigi due mostre sull’icona pop del Novecento

Filosofia d’artista: "Non esisto, dunque sono"

Parigi - Una delle ultime immagini di Andy Warhol rimanda in modo sconvolgente a quella di un teschio imparruccato. Il volto sempre più scavato, le tempie che si assottigliano, gli occhi che paiono due cavità vuote, l’unico elemento di vita sembra essere quella artificiale capigliatura bianca sovrastante il cranio a mo’ di cespuglio. Warhol era sempre stato ossessionato dalla morte: la trovava incomprensibile e spiazzante. «Morire è la cosa più imbarazzante che ti può accadere, perché qualcuno deve curarsi dei dettagli. Non ho mai capito perché quando si muore non si svanisce».

Nel 1968, al culmine della celebrità, una militante femminista, Valerie Solanas, fondatrice della Scum, Society for Cutting up Men, il movimento «per fare a pezzi» i maschi, gli aveva sparato a bruciapelo per strada. C’erano voluti un intervento chirurgico di molte ore e un mese e mezzo di degenza per venirne fuori, il corpo «con così tante cicatrici da sembrare un vestito di Dior», ma da allora la sua consapevolezza della finitezza umana si era, come dire, fatta patologica. «Prima che mi sparassero, ho sempre avuto il sospetto che, invece di vivere un’esistenza reale, stessi guardando la televisione. Da quando mi hanno sparato tutto appare come un sogno. Non so se sono ancora vivo o se sono morto».

L’idea di trasformarsi in macchina, in feticcio, viene da lì, l’assenza e/o l’incorporeità come estrema difesa, come sottrazione totale del proprio essere, azzeramento di se stessi. Non è un caso che alla grande retrospettiva del Moma di New York del 1989, cioè due anni dopo la sua scomparsa, Warhol fosse presente nelle vesti di Alan Midgette, il sosia da lui adottato alla fine degli anni Sessanta, «molto più simile a ciò che la gente si aspetta da me di quanto io possa essere». E non è un caso che sulla propria tomba avrebbe voluto comparisse, come unica parola, la scritta «Finzione».

Ogniqualvolta c’è una mostra di Andy Warhol si ripete uno straordinario successo di pubblico. Lui in vita, l’esposizione si trasformava in happening, in evento mondano, perfettamente in linea con chi, del resto, diceva di essere affetto «dalla malattia della mondanità. Andrei alla presentazione anche dell’asse di un cesso»... Da quando non c’è più, l’impressione è quella, da un lato, dell’omaggio a una personalità sicuramente fuori del comune, dall’altro di una sorta di caccia al tesoro, con il visitatore impegnato a cercare di capire il segreto che si nasconde dietro quel successo, e con esso la possibilità di ripeterlo. È di Warhol, non va dimenticato, l’affermazione che «tutti possono essere famosi per quindici minuti» e dietro la sua abolizione di ogni barriera fra arte e vita, perché già vivere è un’opera d’arte, c’è l’effetto cascata dei reality show, dell’apparire come essere, della registrazione pura e semplice della quotidianità. Noi siamo ciò che uno schermo rimanda di noi stessi, non c’è bisogno d’altro. E siamo tutti eguali.

Le due rassegne che a Parigi lo celebrano, «Le Grand monde d’Andy Warhol» al Grand Palais (curata da Alain Cueff e Emilia Philippot, fino al 21 luglio) e «Warhol Tv» alla Maison Rouge (a cura di Judith Benhamou-Huet, che si è chiusa ieri) si rivelano sotto questo aspetto esemplari. Ci sono i personaggi, le icone, i ritratti (250...), le trasmissioni, le interviste, la pubblicità, la Factory... Morto relativamente giovane, a meno di sessant’anni, tutta la sua vita fu un’inesausta e incessante corsa verso la celebrità. Figlio di immigrati dell’Europa dell’Est, un fisico minuto, un volto segnato dall’acne, una difficoltà a esprimersi complicata all’inizio da una cattiva conoscenza della lingua inglese in una famiglia che si ostinava a parlare slovacco, Andy costruì se stesso come una sorta di icona del sogno americano. «Quel che c’è di veramente grande in questo Paese è che esso ha dato il via al costume per cui il consumatore più ricco compera essenzialmente le stesse cose del più povero. Mentre guardi alla televisione la pubblicità della Coca-Cola, sai che anche il Presidente beve Coca-Cola, Liz Taylor beve Coca-Cola, e anche tu puoi berla. Tutte le Coche sono uguali e tutte le Coche sono buone. Liz Taylor lo sa, lo sa il Presidente, lo sa il barbone e lo sai tu. L’idea dell’America è meravigliosa perché più una cosa è uguale e più è americana».

L’idea della serialità, della ripetizione, dell’arte come produzione, commercio, affare, nasce da qui, dal venir meno dell’unicità, dalla perdita di senso di ogni genialità. Al contrario, la genialità diventa la norma, il fare parte di un contesto, l’essere perfettamente in linea con il gusto comune, il suo ripeterlo e il suo farne un elemento di moda. Buon disegnatore, Warhol conosce benissimo i fondamentali che si celano dietro qualsiasi pittore: prospettive, profondità, colori. Ma la sua scommessa è annullarli e renderli inesistenti a favore di una riproduzione, di un marchio di fabbrica, di una firma. Se i surrealisti avevano ribattezzato Salvador Dalí «Avida Dollars», uno che in pratica aveva barattato l’arte per i quattrini, Warhol farà di Dalí un precursore perché l’arte di fare i soldi era per lui la vera, unica arte del XX secolo, la Business Art.

Nato nel 1928, Warhol divenne popolare a partire dagli anni Cinquanta e, fino alla sua morte, non smise di esserlo. Incarnò la Pop Art, fu concettualista, rappresentò la Transavanguardia, non si fece mai mettere fuorigioco dagli spostamenti progressivi del mercato. Che ci arrivasse da epigono o da precursore, la sua straordinaria abilità di venditore e di intrattenitore lo riposizionava sempre al centro della scena.

Girando per le sale del Grand Palais e della Maison Rouge, l’effetto ripetitivo, epidermico e colorato, a volte soffocante e funereo, altre volte ludico, di ciò che è esposto è quello che ne fa l’anima e che meglio esemplifica il tipo di rivoluzione da lui operata. Chiedersi se tutto questo sia o meno arte, più che ozioso è inutile, così come di una Coca-Cola o di un hamburger non ci si interroga sugli ingredienti, ma solo se rispondano costantemente a un determinato gusto, che è quello della maggioranza.

Un gusto livellato dove tutti possono riconoscersi e dove ogni cosa è a sua volta riconoscibile, rassicurante nella sua semplicità, eccitante nel suo esser riprodotta. «Se volete sapere tutto su di me, basta guardare la superficie dei miei dipinti, dei miei film, e me stesso. Non c’è nulla dietro la facciata». Più che uno, nessuno. E quindi tutti.

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