Alessandro M. Caprettini
da Roma
Gianfranco Fini sente puzza di bruciato e avverte il Parlamento: «Nella battaglia sulla riforma del Consiglio di Sicurezza dellOnu, lItalia ha fatto il possibile, ma i rischi di un insuccesso restano seri» dice davanti alle commissioni Esteri di Camera e Senato riunite ieri a Montecitorio. Non è un mettere le mani avanti.
Il ministro degli Esteri ha sgobbato da molti mesi a questa parte per sostenere le nostre tesi. Anche Ciampi, come fanno sapere dal Quirinale, si è esposto in prima persona a sostegno delle linee strategiche della nostra diplomazia in ogni occasione. Come nel recente intervento a Strasburgo quando parlò di «chiarezza di visione» del Parlamento europeo a sostegno di un «seggio unico dellUnione Europea» al palazzo di vetro. Ma nonostante gli sforzi - ai quali si associa Rutelli dal fronte dellopposizione, spedendo una nota a Fini in cui gli chiede di sottoporre lipotesi italiana al voto dellassemblea dellOnu - la «battaglia» rischiamo di perderla. Per via di una insolita ma interessata alleanza che si va consumando in queste ore tra il G4 (Germania, Giappone, India, Brasile) e i Paesi africani. È infatti accaduto che questi ultimi, reclamando un inserimento sul ponte di comando, si siano finiti per trovare sulla stessa linea del G4 da cui sono stati promessi loro due seggi permanenti più altri 5 di quelli a rotazione. E così il dialogo imbastito nei giorni scorsi a New York dai ministri degli Esteri di Berlino Fischer, di Brasilia Amorini, di Tokio Machimura e di New Delhi Singh coi loro colleghi di Nigeria, Sudafrica e Libia è andato montando. Il G4, che aveva già accumulato 108 voti (ma ne servono 128 e cioè i due terzi dei 191 Paesi accreditati), vuole aggiungere a questi i voti del continente nero. E i 53 Paesi dellUnione africana risultano vitali per far avanzare il progetto, portandolo al voto in assemblea, probabilmente a fine mese.
Ecco perché Fini trasuda un certo pessimismo. Tornando a ripetere a deputati e senatori che si è fatto tutto il possibile per evitare una soluzione del genere (che rischia di emarginarci a lungo dalla stanza dei bottoni) e che la nostra azione diplomatica che puntava a realizzare un più ampio consenso per la riforma del Consiglio di Sicurezza, ha incontrato significativi consensi tra molti Paesi. Non è bastato, a quanto pare. Prevale la logica del braccio di ferro. Ed è allora utile ricordare, come fa Fini, come «la riforma non può che avvenire sulla base di soluzioni di ampio consenso, pena una grave crisi di legittimità delle Nazioni Unite».
Crisi che tra laltro resta più che possibile, dietro langolo. Stati Uniti e Cina hanno apertamente preso le distanze dallipotesi del G4. Anche la Russia non è daccordo. Ma è improbabile che dopo un voto positivo in aula sul progetto di allargamento, possano esprimere il veto in consiglio di sicurezza. Più che probabile invece lo facciano in seconda battuta: quando dalla scelta del metodo (a fine mese) si dovrà passare allidentificazione dei nuovi soggetti permanenti e dei loro poteri (il G4 non reclama il diritto di veto ma crede se ne possa riparlare nel 2020). Sarà allora, probabilmente a metà settembre quando lOnu celebrerà tra laltro il suo 60º compleanno, che si alzeranno le barricate.
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