Follini inventa la politica del non fare per rimpiangere la prima Repubblica

Arrivati intorno a pagina cinquanta abbiamo compreso che l’autore ha perfettamente ragione: la pazienza è un grande dono. Ce ne vuole parecchia per arrivare in fondo a un libro che esalta passioni eccitanti come, nell’ordine: la lentezza, la compostezza, la capacità di rimandare le decisioni, la pacatezza, la moderazione, l’immobilismo, il compromesso, la mediazione, persino la rimpianta virtù di saper annoiare, come nei bei congressoni di partito della prima Repubblica.
Non è strano che l’elogiatore della politica slow, con un sincero moto di orrore per la parola «riforme» e per la fretta che questa benedetta mania di riformare tutto induce nella vita pubblica, sia cresciuto a pane e politica, anzi a ostie e Democrazia cristiana. Trattasi di Marco Follini, vecchia (si fa per dire, ha 56 anni) volpe della politica italiana, furbissimo navigatore di correnti e maree, sempre a galla ma col vezzo di istruire i colleghi e l’opinione pubblica su come dovrebbe essere la politica, come se lui, fino ad oggi, ne fosse rimasto fuori. Invece è stato sulla plancia di comando diverse volte, già giovanissimo segretario dei piccoli democristiani, poi nella direzione nazionale della Dc, poi nel Cda Rai, poi segretario dell’Udc, poi vicepremier (con Berlusconi, che ora detesta), poi (adesso) al Senato, col Pd, cioè con gli ex comunisti sempre odiati.
Ora, nella sua ultima fatica letteraria (Elogio della pazienza. Perché la lentezza fa bene alla democrazia, ed. Mondadori), Follini spiega che siamo tutti vittime di un grande abbaglio. Ci eravamo convinti che si dovesse riformare il Paese, e che lo si dovesse fare anche in fretta, invece no, l’ex segretario Udc ha capito, tramite riflessione zen e molte tazze di the verde, che il segreto sta tutto nel contrario. Bisogna rallentare, al limite fermarsi, comunque darsi una calmata, ad ogni modo andare lenti, come lumache, seguendo la massima di Fanfani, tanto per darci una svecchiata: «Progresso senza avventure», cioè avanti, se proprio si deve, ma piano, molto piano. Stavamo lì ad aspettare l’innovazione? Non abbiamo capito niente. «La politica, a furia di ripetere quella parola d’ordine, si convince che il suo dovere sia tutto nel cambiamento. La politica è chiamata ad essere soprattutto veloce, dinamica, all’occorrenza frenetica. Di questi tempi la sua cifra è la fretta, il suo stato d’animo è l’ansia». E invece, perché angosciarsi? Non serve, anzi peggiora la qualità dei nostri governanti. Prendiamocela con calma, che poi tanto le cose si sistemano.
Dice Mahatma Follini, nella seconda meditazione trascendentale: «La politica ha bisogno di tempo. È lenta. E la democrazia è particolarmente lenta. Cammina piano, non procede a passo di carica. Riflette, non improvvisa. Elabora. Cerca di convincere, non di incalzare, tanto meno di travolgere. In una parola, la politica è un ballo lento». Lentissimo, soprattutto quello di Follini, che infatti ultimamente - lo ammette lui stesso - è un po’ defilato, «mi sento ormai un ex leader in disarmo». Un’altra vittima, dopo Gianfranco Fini, della cosiddetta «sindrome del Colle», che si manifesta con sintomi inconfondibili: pur non residendo al Quirinale, il politico si mette a parlare come se fosse il Capo dello Stato, stregato dal sottile fascino del potere «super partes».
In realtà un vecchio democristiano non è mai in disarmo tanto meno super partes, e tanto meno Follini che alloggia a Palazzo Madama in quota Pd. Anche se defilato, tesse la sua tela e cerca di affondare il nemico, che in questo caso si chiama Silvio, l’innovatore (tremenda qualità) che ha accelerato la politica italiana facendola precipitare in quel vortice di urgenza che procura il mal di mare al lentissimo Follini. Del resto per lui «il canone della politica è la prima Repubblica», che il senatore rimpiange vistosamente. Quello della Dc, un potere «discreto, appartato, il meno appariscente possibile, la sua divisa era il basso profilo». Peccato che, nella lentezza e pacatezza generale, il potere fosse incomprensibile e imperscrutabile, il suo linguaggio criptico e iniziatico, e la sua ammirevole mancanza di fretta sia riuscita perfettamente nell’obiettivo di lasciare le cose come stavano.

Pazienza perché, per Follini, queste erano tutte qualità, drammaticamente perse nell’era della «democrazia emozionale», con leader carismatici che parlano come la gente e non sanno essere «lenti, prolissi e noiosi». La speranza di Follini è che torni in auge il vecchio potere. La pazienza, almeno quella, non gli manca.

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