Il segnale lallarme lanciato da Beppe Damasio sul Giornale di domenica 20 novembre 2011, dove sono evidenziate le sue perplessità su una futura destinazione del Forte di San Martino come sede del Corpo Forestale, ce ne hanno fatto ricordare la storia. Una storia molto simile alle storie dei forti che circondano la nostra città; torri e fortificazioni che, a seguito di un costante disinteresse da parte delle amministrazioni comunale che si sono succedute da quando Genova non deve essere più difesa militarmente, sono in gran parte in stato di degrado. Pensiamo a come saprebbero gestire all'estero un simile patrimonio di storia e di architettura, che potrebbe essere un fondamentale itinerario nei percorsi turistici proposti per la città. Abbiamo invece sentito solo parole ed abbiamo anche visto investire notevoli somme in progetti demagogici, che nulla hanno tolto al degrado di tale ricchezza per la nostra città.
Forse già nel XIV secolo sul colle era presente una torre, appartenente a quella rete di torri di segnalazione e difesa che, dalla riva del mare, trasmettevano segnali di fuoco e di fumo sino alle località dell'Appennino e della Val Padana, per annunciare l'arrivo di navi nemiche o sconosciute. Di questa torre ne parla, infatti, il Giustiniani nei suoi Annali, allanno 1322 in tema di lotte intestine tra guelfi e ghibellini, che cita la «torre di detto luogo (San Martino) che era cosa molto forte e molto ben in ordine». Ma è nella seconda metà del Settecento che il Magistrato delle Fortificazioni della Repubblica, pensa al progetto di un sistema di fortificazione sulla collina di Papigliano, a difesa degli abitati di Albaro e San Martino, facendone redigere un primo progetto all'ingegnere Michele Codeviola, noto esponente della Scuola di Architettura dell'Accademia Ligustica di Belle Arti. Non si potrà realizzare per l'avvento dei francesi con la Repubblica Ligure e con l'Impero, che tuttavia, pur riprendendo in considerazione l'antico progetto, non riuscirono neppure loro a realizzare. Fu il Regno di Sardegna e per esso, il Genio Militare Sardo, che tra il 1820 ed il 1831 prese mano ai lavori di fortificazione dell'altura, proseguendo quello sbarramento che all'epoca si fermava al forte di Santa Tecla. Dapprima furono realizzate le mura ed il fossato, nel 1826 fu completata la caserma vera e propria. Il forte si presenta oggi come un rettangolo su terrapieno, con un profondo fossato che segue il perimetro del forte, e a mezza altezza una galleria coperta con feritoie. La caserma è un edificio rettangolare a tre piani. Lingresso era provvisto di un ponte levatoio, oggi andato distrutto. Ancora a fine Ottocento il forte era provvisto di una notevole dotazione di artiglieria, con quattro cannoni, sei obici e due mortai e vi stanziavano trecento soldati. Perse gradatamente le sue funzioni nel corso del Novecento, fu riutilizzato nella Seconda Guerra Mondiale come postazione di una batteria antiaerea. E proprio durante l'ultimo conflitto fu teatro di una feroce rappresaglia all'alba del 14 gennaio 1944. Prendendo a pretesto lassalto condotto da Giacomo Buranello ed un compagno dei GAP contro due ufficiali tedeschi in via XX Settembre, il prefetto Basile, convocato il Tribunale Militare Speciale, faceva condannare a morte per fucilazione otto detenuti politici delle carceri di Marassi, che, immediatamente prelevati, furono portati al Forte di San Martino; incaricati dell'esecuzione, i venti Carabinieri del plotone comandato dal tenente Giuseppe Avezzana Comes e da lui incoraggiati, si rifiutarono di eseguirla. Ne nacque un alterco ed a quel punto i fascisti uccisero i condannati a colpi di mitra e di pistola. Il tenente Comes, nel trambusto, riuscì a tornare al comando di via Corsica, ricevendo l'elogio dei superiori per il suo operato ma, prelevato dai nazisti, subì interrogatori e sevizie e fu quindi internato in Germania, da dove ritornò solo a guerra finita.
Come egli stesso ebbe a scrivere, rifiutò di ordinare la fucilazione degli otto condannati perché «Mi vennero alla mente 140 anni di storia dell'Arma e decisi di non obbedire all' ordine, perché lo ritenevo illegittimo».
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