Fotocronache dall’ultimo impero

Bambini, giarrettiere e naziskin per l’affresco in cento scatti di un soldato divenuto reporter

Una mostra che non dà risposte. Fornisce semmai l’occasione per farsi ulteriori domande. Come è cambiata la Russia dai tempi di Gorbaciov? Come si affronta, laggiù, la vita quotidiana nel Terzo millennio? Che fine ha fatto il comunismo? Che fine farà? Una manciata di scatti non risolve questi misteri, ma sollecita a pensare, perché quello rimane un territorio caratterizzato da mille contraddizioni. A vent’anni dai grandi stravolgimenti della perestroika, la ristrutturazione introdotta nel 1987 nell’allora Unione Sovietica per risanare l’economia nazionale, e che poi si rivelò come la scintilla di un cambiamento epocale, a vent’anni da quel periodo la società ha subito modifiche che hanno creato contrasti e profonde tensioni. Ricchezza e povertà convivono, insieme a raffinatezze e volgarità di ogni sorta.
A vent’anni da allora un fotografo racconta il suo Paese usando uno sguardo pieno di passione e ironia. Lui è Sergey Maximishin, premiato due volte con il World Press Photo (la competizione di fotogiornalismo più nota al mondo), nel 2006 nella categoria Daily life e nel 2004 nella categoria Arts and entertainment. La sua personale, dal titolo «L’ultimo impero» è ospitata alla Galleria Grazia Neri di via Maroncelli 14, fino al 18 aprile. Maximishin, classe 1964, è di origine ucraina. Nel 1982 si trasferì a Leningrado. Entrò nell’esercito sovietico dove prestò servizio come fotografo per il Soviet Military Force Group di Cuba. Dopo una laurea in fisica ha lavorato per il Museo dell’Hermitage e, dal 1998, si è dedicato al fotogiornalismo. Fino al 2003 prestando la sua opera per la rivista Izvestia, poi affiliato all’agenzia tedesca Focus. I suoi servizi sono stati pubblicati su alcune delle maggiori testate del mondo: Newsweek, The Times, Liberation, Washington Post, Wall Street Journal, Corriere della Sera e altri.
Il suo obbiettivo osserva con affetto il popolo russo, senza mai cadere nel banale o nelle eccessive celebrazioni. Si vede gente che affronta un quotidiano composto nella dignità e nei molti sforzi per migliorare una condizione tesa al riscatto. I protagonisti preferiti da Maximishin sono donne che preparano il pane nel giorno del sabato santo, cameriere sexy in bustino e giarrettiera, bimbi che giocano con i gatti, naziskin ricoperti da tatuaggi, insegnanti cecene vestite da contadine che partecipano al restauro di una scuola distrutta dalla guerra, pescatori in Kazakistan, detenuti di Pietroburgo, inservienti del Museo de l’Hermitage che lustrano teche di vetro per pochi rubli.
All’autore piace raccontare storie, ed è come se per farlo le scrivesse, standosene dietro una lente, con discrezione. La sua ricerca è un’antologia dove miserie e avidità, guerre e malattie, icone ed elementi pagani si mescolano, creando un tavoliere di colori materici e lampeggianti. È come un Martin Parr del comunismo ante litteram, che si abbandona a riflessioni pop eppure autentiche sui nuovi zar di quel mondo. Il suo scopo, in fondo, è uno soltanto.

Attraverso il racconto, sembra volerci ricordare che nell’Ultimo Impero, vent’anni dopo, tutto convive in un combinato disordine: tradizioni e modernità, amore patrio e nazionalismi pericolosi, dignità e bassezze, buoni e cattivi. E nessuno ha tempo per farsi domande.
Aperta con ingresso libero. Per informazioni: tel. 02-625271; www.grazianeri.com.

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