LA FRONTIERA DEL RIGORE

Quando si occupa di immigrazione la politica - in particolare la politica di sinistra - tende a sostituire le mozioni degli affetti alla cruda realtà dei fatti. Un buonismo aggressivo e un solidarismo di maniera – che sono prerogative dei Pecoraro Scanio e compagnia, ma che contagiano l’intera maggioranza - imperversano là dove occorrerebbero riflessioni concrete: con indicazione di provvedimenti veri e con il calcolo dei costi economici e sociali d’ogni provvedimento. A quest’esigenza l’area utopico–progressista della sinistra risponde con fumose dichiarazioni d’intenti, e con struggenti amarcord dell’Italietta dalla quale partivano i bastimenti per terre assai lontane. Così si fa della retorica spezzacuore, e non si risolve niente.
Se vogliamo essere seri dobbiamo cominciare da alcuni dati. Il primo: l’Italia è seconda solo agli Stati Uniti per l’entità del flusso immigratorio, regolare o clandestino. Questo fenomeno, gestito da mafie spregevoli di trafficanti e scafisti, provoca tragedie quasi quotidiane che, per la loro ripetitività, sembrano ormai di scarso rilievo, ma che sottintendono sofferenza, sfruttamento, viaggio della morte anche per donne e bambini. L’immigrazione genera microcriminalità e genera anche - in zone dove la presenza di stranieri è massiccia, come il Bresciano - fatti di sangue. Hina Saalem è stata «giustiziata» in Val Trompia dai familiari pachistani, alla periferia di Brescia una ragazza, Elena Lonati, è stata uccisa da un sagrestano cingalese. Conosco l’obbiezione, in Italia gli assassini erano e sono tanti anche senza l’apporto extracomunitario. Verissimo, e guardiamoci noi italiani dall’atteggiarci, in fatto di criminalità, ad angioletti. Ma è innegabile che l’immigrazione ci porta in casa elementi pericolosi. Il peggio è che a volte questi elementi possono diventare clan o ghetto o banda: come a Padova dove s’è dovuto erigere un muro di lamiera per proteggere i cittadini dalla dilagante malvivenza.
A questa situazione che in più d’un momento assume i caratteri dell’emergenza il governo Berlusconi ha voluto rispondere con la legge Bossi-Fini, tacciata dalle anime belle di bieco razzismo. In effetti quella legge s’è rivelata difettosa: non per eccesso di crudeltà repressiva, ma per la sua ridotta efficacia. Del resto è tipico non tanto delle leggi italiane quanto della loro applicazione un ammorbidimento graduale. Non appena la coalizione prodiana ha avuto il governo si sono scatenati, al suo interno, i fautori dell’«apriamo le braccia al terzo mondo». I centri di permanenza temporanea sono diventati lager al cui confronto quelli nazisti erano una villeggiatura, le procedure d’espulsione sono state tacciate di disumanità, s’è decisa la concessione della cittadinanza - dopo cinque anni in Italia - anche a chi rimane profondamente estraneo, quando non ostile, al modo di vita italiano e occidentale.
Chi dice che così facendo si facilita l’integrazione o è illuso o è ipocrita. Personalmente credo che dopo il conato di rigore della Bossi-Fini sarebbe necessario non il calabrache del centrosinistra ma un maggiore - e meglio attuato - rigore.

Nel senso d’una serietà di controlli, di misure preventive, di misure punitive che - sull’esempio di quanto sta facendo in Francia il ministro dell’Interno Nicolas Sarkozy - protegga i cittadini italiani, protegga gli immigrati per bene, scoraggi l’infame genia di coloro che traghettano a pagamento i poveri del terzo mondo verso il mondo sviluppato. O verso la fine in mare.

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