«CUORI NERI»

Il 18 aprile 1970 un militante genovese del Movimento sociale viene ferito a morte in piazza Verdi

È il 3 maggio del 1970. L’«altro» Secolo, il Secolo d’Italia, l’organo del Msi apre la pagina con un titolo rosso, maiuscolo, a caratteri di scatola: “Assassinio Comunista”. Occhiello: «È morto a Genova Ugo Venturini, operaio volontario del Msi, colpito dai rossi mentre difendeva la libertà e i valori della nazione». Catenaccio: «Dodici giorni di atroci sofferenze sopportate virilmente nel costante pensiero per la famiglia, l’Italia e il Movimento sociale. Lascia la moglie, un figlio, e gli anziani genitori, che egli sosteneva con il proprio lavoro di muratore. Dirigeva i Volontari nazionali genovesi, aveva ottenuto due medaglie d’oro per atti di umana solidarietà». Sempre in prima pagina la foto della moglie, con un bambino in braccio: «Rina, la giovane sposa di Ugo, con il piccolo Walter che non rivedrà più il padre ucciso dai criminali comunisti».
Sul “Secolo XIX” c’è un documento incredibile, con il giovane attivista che dopo essere stato colpito, con un rivolo di sangue che gli cola da dietro l’orecchio si guarda le mani sporche.
L’Unità, 4 maggio 1970:
«Ancora non si sa come sia stato ferito Venturini, ma si sa con certezza che egli è stato raggiunto al capo da una di quelle bottigliette portate al comizio dai suoi camerati».
Il Popolo, 4 maggio 1970:
«Anche gli elementi missini erano in possesso di materiale atto ad offendere. È deprecabile che Almirante abbia approfittato dell’occasione per trasferire l’episodio sul piano elettoralistico».
Nino Tripodi, Il Secolo 5 maggio 1970:
«Cristiani costoro? Quanto possono esserlo le jene».
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Camera dei deputati, seduta del 5 maggio 1970, resoconto stenografico del dialogo tra il presidente di turno, il comunista Arrigo Boldrini, e i deputati del Movimento sociale:
- Servello (Msi): «La presidenza avrebbe dovuto associarsi al lutto come fece per lo studente Walter Rossi».
- Presidente: «Io depreco qualsiasi incidente che possa impoverire quel patrimonio che tutti gli italiani, compiendo il loro dovere, hanno contribuito a costruire».
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Braccia tese ai funerali, labari, gagliardetti, le camicie brune dei Volontari Nazionali con la fascia nera al braccio, giovani avanguardiste con i pantaloni di pelle, la croce celtica sulla maglietta nera e il tricolore i mano. Drappelli di reduci, cortei di giovani venuti da tutta Italia, l’orazione di un frate, padre Clementino, che dice: «C’è un ragazzo che è morto perché credeva in Dio, nella famiglia e nella patria». E poi il “Presente!” gridato in coro, e naturalmente il discorso di Almirante.
Nessuno lo sa, ancora ma sta nascendo in queste ore, a Genova un cerimoniale che sarà destinato a ripetersi negli anni, diventando un elemento di identità del partito, un rito di appartenenza e di militanza. E nessuno ancora immagina che intorno all’operaio edile, al sottoproletario “lavoratore e martire” stia nascendo una mistica destinato a segnare tutta la storia del Msi.
Il funerale di Venturini, nelle foto d’epoca rivela una coreografia attenta – fatta di picchetti e drappelli – in cui nulla è lasciato al caso. Non c’è nessun rappresentate del governo, nessun dirigente di partito, nessuno dell’amministrazione cittadina. È una nazione nella nazione che celebra isolata - ma con un imponente dimostrazione di forza - un suo morto. È un rito comunitario che sembra un funerale di Stato, una solenne liturgia nera.
Giorgio Almirante, 5 maggio 1970:
«Noi ti vendicheremo, Ugo Venturini, ma ti vendicheremo cristianamente, come vuole il nostro spirito e la nostra tradizione, cioè ricordandoti sempre come un esempio, battendoci come te, propagandando la nostra fede, affermando la nostra Idea, per il trionfo della giustizia sociale, per la libertà vera degli italiani».
Il giorno dopo donna Assunta, aprendo la porta di casa si ritrova davanti un uomo e un bambino di sei anni. Suo marito sorride: «Walter abiterà con noi. Almeno per un po’».
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Rita Trivelli, il Secolo d’Italia, 6 maggio 1970:
«Mio marito frequentava il Movimento sociale, ma non era fanatico, non era un fascista, non andava ad affiggere i manifesti, né ad attaccar briga con in comunisti. Cento volte, prima di morire, mi ha ripetuto questa frase: “Rita, tu lo sai, non facevo nulla di male. Stavo solo ascoltando un comizio. Perché ci hanno assalito? Perché non è possibile vivere in pace?”».
Il Secolo XIX, 3 maggio 1970:
«Venturini, fino a qualche anno fa frequentava la sede della pubblica assistenza Volontari del Soccorso, di via della Fenice, ed era considerato fra i più attivi. Guidava le ambulanze. Alla Volontari del soccorso hanno detto: “Era un ragazzo a posto e non parlava mai di politica. Del resto noi per Statuto, qui parliamo di tutto meno che di quello”. La suocera, Giovanna Più ha dichiarato: “Non sapevo che fosse un attivista. Il giorno del comizio io rientravo a Genova dalla campagna e lui venne a prendermi alla stazione per accompagnarmi a casa”.
Rita Trivelli, il Secolo d’Italia, 6 maggio 1970:
«Io non sono né fascista, né missina, né comunista. Non voglio sapere nulla di nulla. So solo che mio marito è morto e io sono rimasta sola con il mio bambino. Per lui devo vivere e lavorare, è l’unica cosa che mi resta di Ugo».
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Già, il bambino. Il Secolo d’Italia, il 6 maggio pubblica un corsivo dedicato al figlio di Venturini. La foto del piccolo, da quando il padre è morto, comparirà tutti giorni, fino al giorno delle elezioni. Nell’ultima pagina del giornale, accompagna il rendiconto della colletta per la famiglia, corredato da una didascalia eloquente: «Il piccolo orfano Walter». “Il Secolo XIX” mette in pagina una foto del bambino che stringe il cuore solo a guardarla, con i pantaloncini corti a cavallo di una bicicletta a rotelle. Ma la stampa “borghese”, cittadina e nazionale, dimenticherà in pochi giorni il caso. Nel mondo missino – invece - l’emozione per il bambino è grande e l’anonimo editorialista del quotidiano del partito (che fosse lo stesso Almirante?) racconta bene questo clima, senza risparmiare dettagli melodrammatici:
«Un bambino dai grandi occhi malinconici, il volto serio, l’aria interrogativa: “Mamma – ha chiesto quando sua padre era in ospedale – mamma dove è andato papà”? La moglie di Ugo l’ha guardato a lungo, se lo è preso in braccio, ha affondato il viso nelle sue piccole spalle gli ha afferrato disperatamente le manine: “Papà - ha risposto – è andato a lavorare in un paese lontano da Genova, Per un po’ non lo vedremo più. Il bambino non ha domandato altro. Tutte le sere, in silenzio, si accosta alla finestra e guarda in strada. Non dice niente, non chiede. Aspetta senza piangere sgranando oltre i vetri quei suoi grandi occhi pieni di inconsapevole malinconia. Suo papà non tornerà più».
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Cominciano le indagini. “Il Secolo XIX” annuncia che l’ufficio politico ha sequestrato il famoso filmino del comizio, con l’obiettivo di accertare l’identità degli aggressori. Lo ha girato un consigliere comunale del partito, Miro Taccini, appassionato di riprese amatoriali. All’epoca Taccini aveva già 67 anni, è morto da un decennio. Ma la storia, ancora oggi, se la ricorda bene suo fratello Giovambattista: “Miro era progettista navale, era stato capogruppo del Msi negli anni cinquanta, ma aveva sempre cotivato una passione per la cinepresa otto millimetri, che si portava dietro per filmare tutti gli eventi del partito. L’aveva con sè anche quel giorno. Miro era convinto che quelle immagini avrebbero permesso di identificare con certezza l’assassino. So che in Questura le visionarono. Ma cosa accadde poi, sinceramente non lo so”.
“Il Secolo XIX”, 5 maggio 1970:
“Nel filmato, secondo i dirigenti del Movimento sociale, si sarebbe dovuto vedere colui che lanciò la botttiglia che colpì Venturini. La pellicola invece, a quanto ha riferito il dottor Catalano, capo dell’ufficio politico della Questura di Genova, s’è dimostrata di scarso interesse. È stato solamente ripreso il contesto generale del comizio senza alcun particolare utile per le indagini”.
Umberto Testori, Il Secolo d’Italia, 19 magggio 1974:
“Nei primi sette giorni di degenza, all’ospedale, prima dell’intervento chirurgico, cui fu sottoposto il 27 aprile andai a trovarlo tutti i giorni. Fisicamente era a terra, la ferita gli faceva molto male (…). Mi disse: ‘Magari avessi avuto il casco. Almeno non mi sarei fatto niente’”.
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Lotta Continua, 12 novembre 1970 (i corsivi sono nel testo originale):
Genova, comizio di Almirante. Il Pci dice di vigilare. I proletari invece attaccano – Giustiziato il fascista Venturini.
A Genova si ricordano ancora bene del luglio 1960 e parlano con emozione delle tante e tante botte date a fascisti e poliziotti in piazza De Ferrari e nelle strade e stradine che portano al mare, per impedire il convegno nazionale del Msi. È per questo che ogni iniziativa missina a Genova viene interpretata come un tentativo di rivincita; tanto più di un comizio in piazza. La radio clandestina del proletariato, Radio Gap (della Radio Gap abbiamo comunicato integralmente il testo delle trasmissioni, il numero 2 e il numero 3 a Trento, in numero 4 di nuovo a Genova. Recentemente la radio Gap si è fatta sentire a Roma per due volte, distanziata di alcuni giorni, sempre interrompendo la Tv, sempre allo stesso punto delle altre volte: durante il telegiornale) che fa sentire per la prima volta la sua voce, chiama i compagni a scendere in lotta per impedire il comizio. Il Pci definisce questo una provocazione e invita i suoi militanti a “vigilare” e a “difendere le sezioni del partito”. Una parte della base segue il consiglio delle vigilanza, ma con l’unico modo che riesce a concepire: recuperando le proprie armi, spolverandole e oliandole”.
Subito dopo il settimanale del movimento di Adriano Sofri ripercorre gli eventi che hanno portato alla morte del militante missino. non solo rivendica politicamente la giustezza de, delitto, ma irride l’Unità che, secondo i redattori di Lotta Continua affoga nel ridicolo per la sua incapacità di comprendere il senso più autentico di quella morte: non si è trattato di un delitto, infatti, ma un atto di giustizia proletaria.
Centinaia di proletari, invece, militanti del Pci e di Lotta Continua scendono in piazza: circondano il pubblico che ascolta Almirante, danno l’assalto al palco, si scontrano contro il servizio d’ordine missino e con la polizia che fa quadrato attorno ad Almirante: cercano di far fuori questo rottame fascista, ma le pietre, le bottiglie e i bastoni colpiscono il suo servizio d’ordine. Ugo Venturini, capo dei volontari genovesi del Msi (l’apparato militare del movimento) presente tra gli uomini di Caradonna nell’assalto all’Università di Roma nel marzo del ’68, viene colpito in testa da una bottiglia.
Dopo alcuni giorni muore. L’Unità prima cerca di accreditare l’ipotesi del tetano, poi quella dei suicidio, o perlomeno delle scontro interno, con Venturini ucciso per mano di un altro fascista. Non teme neppure di affogare nel ridicolo, nel tentativo di nascondere la realtà, così chiara e istruttiva, della giustizia proletaria che ha fatto una sua vittima.
Lo slogan fascista 1, 10, 100 100 Venturini” comincia a diventare pericoloso per chi lo scandisce”.
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Assunta Almirante, 2004:
“Dopo che Giorgio lo portò a casa, Walter restò ad abitare da noi fino a Natale dell’anno dopo. Eravamo affezionatissimi a lui, come se fosse diventato un altro dei nostri figli. La madre all’inizio era molto felice di questa scelta, lavorava, doveva sistemare le pratiche del lutto, rimettersi in sesto. Veniva a Roma nel fine settimana, ogni quindici giorni: eravamo diventati come una famiglia, il piccolo mi chiamava ‘Zia’. Walter era un ragazzino molto intelligente, per la sua età, e all’inizio sembrava di buon umore, e non del tutto consapevole di quello che era accaduto. Poi, il giorno in cui stavamo preparando il presepe, mentre piazzavamo Gesù e i pastorelli mi chiese, come se fosse una domanda spensierata: ‘Ma tu come fai ad essere così credente e grata a Dio, se Gesù si è preso mio padre? Perché Gesù si è preso proprio mio padre? Perché?’. Avrei voluto che restasse da noi, che avesse più tempo che potesse rimarginare le sue ferite.

Ma poi un giorno la signora Rita mi disse: ‘Sono rimasta troppo sola. E Walter deve tornare nella città di suo padre’. Non c’era motivo di fare obiezione, era giusto. Per molto tempo, ogni volta che io e Giorgio arrivavamo a Genova, andavamo a trovarli”.
(2 - continua)

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