Gettonato ma isolato, la strana estate di Casini

Il leader Udc è al punto più basso delle sue fortune politiche: in vista delle amministrative in autunno il suo partito rischia di perdere consensi e subire scissioni. A rischio alcune alleanze locali con il Pdl

Gettonato ma isolato, la strana estate di Casini

Roma - Siccome la politica italiana è il luogo dove convivono i paradossi, il caso vuole che il momenti di maggiore fortuna mediatica di Pier Ferdinando Casini, coincida con il più difficile snodo della sua carriera politica. Lui, il leader dell’Udc, in arte «Pierferdy», è uno dei pochi politici italiani che non si tingono i capelli, e già questo testimonia il suo appeal. Per dire: Antonio Bassolino teme il grigio e ricorre alla mèches, lui ne fa un elemento di fascino: ci sono gli evergreen, lui è un evergrey, e della sua brizzolatura va orgoglioso. Malgrado questo è isolato e deve decidere che fare da grande, pena l’estinzione politica. Perché criticare - come ha fatto ieri - Berlusconi per lo scarso attivismo sulla guerra in Georgia (!) non risolve certo le contraddizioni che si ritrova di fronte.

Il «che fare» di Pier. Chi e Novella 2000 anche in questa estate si contendono le sue foto, e il settimanale diretto da Candida Morvillo è riuscito nell’impresa di pizzicare il leader centrista a Milano marittima, con indosso una memorabile t-shirt «special vip», mentre esercitava gli addominali, e costruendo su questa visione folgorante persino una intervista: «Cosa ci faccio tra veline e tronisti». Con questo interrogativo, in realtà Casini se la cava benissimo. Mentre il vero dilemma, il vero leninistico «che fare» riguarda invece collocazione e prospettiva del suo partito. Da Cortina, il direttore del Corsera Paolo Mieli, tributando a Casini grandi elogi per l’impresa compiuta alle elezioni politiche, con il superamento del quorum osservava: «Pochi se lo immaginavano, ma il segreto del suo successo è nell’aver drenato voti a sinistra. Se il Pd non ha sfondato al centro è perché Casini ha raccolto molti consensi in quell’elettorato». Vero, verissimo. Ma per lo stesso motivo, adesso, questa impresa ha costruito una contraddizione: la sua fortezza elettorale è nella Sicilia della Casa delle libertà, il suo personale politico nel centrodestra, la sua area di possibile espansione all’opposizione. E il suo possibile approdo strategico nel centrosinistra. Un bel dilemma, al punto che la voce fatta circolare ad arte, che indicava Casini come possibile candidato della coalizione di opposizione a Bologna è stato subito smentita, ma indicava sicuramente una aspirazione dei veltroniani e soprattutto di Massimo D’Alema, che vorrebbe ricostruire con Pier il patto d’acciaio che portò Prodi in politica.

Opposizione? Il terzo elemento di sorpresa, poi, è che nelle tre opposizioni che oggi popolano il Parlamento, quella di Casini è la più incisiva. Quella dipietrista è spesso pregiudiziale; quella del Pd sembra inesorabilmente smidollata, quella di Casini, invece, sorprendentemente tonica e dialetticamente ficcante. E chi ne volesse un solo assaggio, dovrebbe risentire la battuta sarcastica che Pier ha concesso in una intervista pubblica a Riccardo Barenghi.
«Direttori a pecora». Lo scorso 1 agosto il giornalista della Stampa su La7 chiedeva: «Se fosse Berlusconi li cambierebbe i direttori?» E Casini, con nonchalance: «E perché mai? Sono così a pecora sul governo che non ne vedo il bisogno». Barenghi scoppia a ridere, gli ascoltatori restano di stucco, lo staff del leader Udc fa un salto sulla sedia. Lui, rilancia: «Un mio collaboratore mi ha mandato un biglietto: “Puoi precisare?”. E subito dopo, sorridendo, aggiunge: «Cosa dovrei precisare? La pecora, è la pecora... magari è un po’ crudo, ma il senso mi pare chiaro». Ecco, Casini è così. Uno che in campagna elettorale, dopo essere stato alleato di Berlusconi per 14 anni anni, e dopo aver silurato Follini per il suo «terzismo» è riuscito ad essere più credibilmente «antiberlusconiano» degli altri competitori, a superare lo sbarramento arduo del 4% mentre la sinistra, con un apparato molto più strutturato si dissolveva. Malgrado le difficoltà, le emorragie e le perdite nei gruppi dirigenti (vedi la scissione di Carlo Giovanardi). Ma grazie a spin doctor come il suo portavoce e stratega Roberto Rao (oggi deputato).
La linea «Che Guevara». Ora però, il tempo è arrivato. Sempre Mieli consigliava a Casini di «non scegliere» e al centrosinistra «di non cercare un nuovo Prodi». Ma a imporre un timing all’Udc e l’abbandono della «linea Che Guevara» (battuta di Fini su Follini) non sono tanto le opportunità tattiche, quanto l’imminenza di amministrative ed europee. Per le prime è in ballo il destino di centinaia di eletti che sono al governo, nella stragrande maggioranza dei casi, in giunte di centrodestra. Per le seconde serve un profilo identitario forte, per riconquistare il vitale 4% e una euro-pattuglia.

Ma per garantire entrambi, qualche scelta Casini la deve fare, perché le dimensioni del partito della Vela, non consentono la libertà del Psi di Craxi negli anni ’80: al governo nazionale con la Dc, e nelle giunte regionali con il Pci. Come gli rimproverava un giovane forlaniano di nome Pierferdinando.

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