«Già pronti a colpire 300 kamikaze iraniani»

Gian Micalessin

da Teheran

A sinistra il manifesto con l'immagine dell'ultimo messaggio di un kamikaze palestinese e la foto della sua testa raccolta in una pozza di sangue. A destra uno schermo gracchiante con un discorso del presidente Mahmoud Ahmadinejad sullo sfondo d'antichi e cruenti scontri sul fronte iracheno. Tutt'attorno foto ritratto, più o meno note, di ragazzi e ragazze palestinesi immolatisi per far strage d'israeliani. Dentro qualche giovane barbuto e curioso che s'avvicina, chiede informazioni e se ne va ringraziando. La «bottega del martirio» come illustra l'insegna tradotta alla lettera dal mio interprete è nella vecchia ambasciata del Grande Satana.
Tra i giardini dell'immenso edificio, diventato 25 anni fa prigione degli ostaggi americani e poi sede dei pasdaran, è in corso la grande mostra sulla Palestina. Il posto ideale per aprire uno stand dedicato agli attacchi suicidi e al martirio in nome dell'islam. Una mostra a cui Mohammad Samadi, anima e voce dei militanti suicidi iraniani, non può mancare. Da dietro il banco, tappezzato da immagini di cadaveri e sangue, distribuisce consigli, istruzioni, depliant e verbali d'iscrizione. In fondo questo giornalista 29enne è il fondatore e il portavoce del «Dipartimento per la commemorazione dei martiri mondiali».
Non fatevi ingannare, commemorazioni e ricordi, come spiega Mohammad sono roba vecchia, anticaglia del passato. «Due anni fa quando raccoglievamo le prime firme di giovani pronti al martirio per cacciare gli americani dai luoghi santi di Karbala e Najaf, l'iniziativa era solo simbolica. Ma i volontari erano tantissimi e così - spiega Mohammad - abbiamo messo in piedi un'organizzazione vera e propria per riunire e addestrare in maniera seria e professionale chiunque voglia sacrificarsi sul fronte della Palestina, su quello iracheno o, anche, partecipare all'uccisione dello scrittore Salaman Rushdie. In caso d'invasione americana però entreremo in azione anche qui».
I curiosi e gli interessati non mancano. Mentre Mohammad spiega, una decina di ragazzi con i libri dell'università sotto braccio s'avvicina al banchetto chiedendo delucidazioni e ricevendo in cambio una scheda su cui lasciare telefono ed email in attesa di una chiamata del centro di reclutamento. «L'arruolamento è molto semplice. Dopo averli ricontattati per sapere se si sentono veramente pronti a unirsi a noi li sottoponiamo a una serie di test politici, ideologici e attitudinali. Se li superano, li richiamiamo per l'addestramento vero e proprio. Fino a oggi abbiamo già ricevuto 55mila adesioni e abbiamo completato la preparazione di mille volontari divisi in tre battaglioni».
La foto del primo battaglione con i suoi trecento ragazzini coperti di bianco da testa ai piedi e le mani sollevate in segno di vittoria campeggia in una delle salette della «bottega del martirio». La formazione è immancabilmente dedicata alla memoria dell'ingegnere Yahya Ayyash il preparatore dei primi kamikaze di Hamas decapitato, nel gennaio ’96, da un ordigno israeliano nascosto nel suo cellulare. Ognuno di quei 300 ragazzini con il diploma di kamikaze in tasca ha sgobbato per almeno tre mesi dedicandosi alla teoria, sottoponendosi a un duro addestramento fisico, allenandosi a indossare i vari tipi di giubbotto esplosivo e imparando, alla fine, le tecniche per arrivare il più vicino all'obbiettivo senza venire riconosciuti.
«Il novanta per cento dei nostri volontari ha tra i 18 e i 25 anni, ma questo non significa sia l'età migliore, per alcune operazioni sarebbe meglio avere degli uomini di 50 anni perché passano più inosservati... ma abbiamo anche molte donne e siamo molto soddisfatti di loro perché sembrano più motivate di tanti maschi».
Mohammad diventa più enigmatico quando gli chiedi se qualcuno dei mille volontari laureati e brevettati ha già dato il meglio di sé alla causa. «La fase simbolica come dicevo è durata solo qualche mese, oggi siamo già nella fase attiva, ma a differenza di Hamas e della Jihad Islamica non siamo impegnati in un conflitto dichiarato... non possiamo divulgare informazioni classificate sulle nostre attività, non abbiamo appoggi ufficiali dal governo e visto la situazione non possiamo chiedere aiuti che equivarrebbero ad una dichiarazione di guerra». Un mese fa il sito web degli aspiranti martiri pubblicava in realtà un appello ai leader iraniani chiedendo l'autorizzazione a penetrare in Irak e a colpire gli americani. Subito dopo il sito era diventato inaccessibile.
In attesa di autorizzazioni, l'unico martire finora riconosciuto e ammesso è un amico di Mohammad partito per l'Irak due anni fa e mai tornato a casa. «La sua è stata un'iniziativa personale, voleva combattere per Karbala e faticò fino a quando trovò il martirio a cui aspirava, ma il suo sacrificio non ha nulla a che fare con l'attività della nostra organizzazione».
Mohammad si definisce un ottimista ed è certo di riuscire prima o poi ad imitare quel compagno di fede caduto a Karbala. «Quando la situazione non lascia scelte, un musulmano non può che aspirare al martirio, oggi i musulmani sono attaccati con tutta la tecnologia e le armi più potenti da americani e israeliani, siamo costretti a trasformarci in bombe intelligenti e infilarci in mezzo al nemico per colpirlo con precisione e determinazione».

Poi Mohammad ti guarda, riflette un attimo e alla fine te lo confessa. «A pensarci bene non dovrei parlarti, sei un italiano e il tuo governo ha mandato le truppe ad occupare l'Irak. Dunque non solo sei un nemico, ma anche un possibile obbiettivo».

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