Il teatro è produttore di eventi che, nel giro di poco tempo, svaniscono. Anche se alcuni lasciano larghe tracce. È accaduto con il «Giardino dei ciliegi», grazie alla memorabile regia di Giorgio Strehler, che segnò il passaggio dalla «regia critica» alla «regia poetica», formule che oggi non si possono nominare, perché il teatro del terzo millennio ha dovuto cimentarsi con i continui ritrovamenti della tecnica. Diventati oggetto di messinscene, un po' fini a se stesse. C'è modo e modo per distaccarsi dalla tradizione e cercare di inventarne un'altra che, magari, sappia non disconoscere del tutto, la lezione dei maestri. Non è un caso che il professor Marotta, nel film di Sorrentino «Partenope», alla domanda di un'sua allieva su cosa sia l'antropologia, risponda che è «saper vedere». Ecco, in teatro, l'esercizio critico o poetico è considerato anacronistico, perché oggi è molto più importante «vedere». Ma a non essere d'accordo è Leonardo Lidi che, lavorando su Cecov, si è distaccato da altri registi della sua generazione che, portando in scena le sue commedie, si sono accontentati di farle «vedere» con un approccio critico e antropologico, un po' superficiale. Con strane virate sui testi analizzati che badavano più agli scheletri che ai personaggi e agli attori. Leonardo Lidi è partito da qui, approfondendo i testi, senza inutili aggiunte o aggiustamenti e lavorando sugli attori con i quali è riuscito a creare una vera e propria Compagnia di Complesso, sotto l'egida del Teatro Stabile di Torino e del Festival di Spoleto che ha creduto nella trilogia di Lidi.
La stessa che si vedrà interamente sabato al Teatro Strehler dove già domani debutta «Il giardino dei ciliegi». Perché se nel «Gabbiano» il regista aveva schierato, davanti a un lago, gli interpreti suggestionati dal luogo e dal tempo, nello «Zio Vania» li aveva posti dinanzi a un muro. Difficile da attraversare, essendo il muro delle nostre inquietudini, delle nostre incapacità a comunicare, mentre nel «Giardino dei ciliegi», i protagonisti sono posizionati su una ipotetica spiaggia sulla quale incombe un soffitto abbastanza illuminato, a neon, che si alza e si abbassa. Per, alla fine e dopo la vendita della casa, abbattersi sul palcoscenico, come il sipario di ferro sulla carretta dei comici nei «Giganti dello montagna» con la regia di Strehler, al cui mondo poetico, Leonardo Lidi ha contrapposto il mondo, altrettanto poetico, dei colori. Sempre protagonisti, nei suoi spettacoli, alquanto articolati e aderenti ai caratteri dei personaggi, attraverso un ventaglio di costumi e di parrucche che rimandano alla vita, sempre variabile, con i suoi incerti e contrastanti sentimenti, con le sue pulsioni, anche erotiche e con la paura del futuro non controllabile. Quello che rende inermi i personaggi del «Giardino», un futuro che ormai appartiene a chi sa trasformare i terreni in attività economiche che, a loro volta, lasciano poco spazio ai risentimenti, alle ansie del nuovo, a quel malessere che si avverte in tutte le epoche di trapasso, come fu quella di Cecov quando a una rovina economica, subentra l'interesse finanziario, tipico della nostra epoca di trapasso.
Per Leonardo Lidi, la poesia del «Giardino», non va più ricercata nelle atmosfere metafisiche, ma direttamente nella vita, fatta di ansie, angosce, malinconie, depressione, ma soprattutto di attese, come quella di voler sapere come sia andata a finire l'asta della proprietà in vendita che si scoprirà, acquistata e lottizzata da Lopachin per il quale, non esistono buoni o cattivi sentimenti, bensì solo buoni o cattivi affari.
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